venerdì 30 dicembre 2011

QUANDO SCAPPA...SCAPPA

Stagione 2004-05, ero a Viadana già da un anno, la campagna acquisti estiva mi regala un compaesano, Luigi Ferraro, di Firenze. Non c’è che dire, un bel personaggio. In preparazione arriva con qualche acciacco lasciato dalla recente partita di calcio fiorentino. Forse non tutti sanno cos’è il calcio fiorentino. 
E’ uno “sport” dove l’unica vera regola è che non ci sono regole. Al calcio fiorentino si incontrano due squadre di “calcianti”, li chiamano così forse perchè sono intenti a darsi calci nel culo dall’inizio alla fine, i quali si scontrano in piazza Santa Croce, ad un gioco che assomiglia alla palla mano per il fatto di fare goal in una porta, ma che per il resto non ha niente a che vedere. Vale tutto! Entrano in piazza e se le danno di santa ragione fin che hanno la forza di alzare le mani...e i piedi. Pazzi scatenati. Anche solo per entrare in campo ci vuole un coraggio da leone.
Mi viene a mente un aneddoto...strano.
Nel 2000, andammo in tournee alle Fiji e i primi giorni, dovendo smaltire il fuso orario, ci trovavamo nella hall dell’albergo alle 3 o 4 di notte, svegli come grilli. Nello stesso periodo c’erano anche gli europei di calcio e visto che eravamo svegli avremmo voluto vedere qualche partita...invece no. Alle Fiji trasmettevano il Calcio Fiorentino, con diretta tv sul canale RTV38! Incredibile! E la cosa pIù bella era vedere come si divertivano in fijani a guardare quei matti ammazzarsi di botte! Fine dell’aneddoto...
Insomma Gigi arrivava a Viadana con la fama del tipo tosto, senza paura, uno con le palle. Effettivamente in campo non aveva paura di niente, non si tirava mai indietro, placcava duro ed era uno su cui potevi contare. E’ sempre uno su cui contare visto che è vivo e vegeto...
Un giorno andiamo a giocare contro il Gloucester, loro avevano una mischia poderosa che stava surclassando tutte le squadre del campionato inglese. Roba da brividi per i nostri. Gigi però era in panchina, anche se fremeva per entrare. Era una serata fredda e ventosa.
La partita, come spesso accadeva alla italiane di coppa, si era messa male ma la nostra mischia, in generale non aveva demeritato. Ecco perchè Gigi era rimasto tra le riserve anche una parte del secondo tempo. Ad un certo punto il cambio. 
Lo stadio non era pieno, ma c’era comunque tanta gente. Touche per loro, ovviamente la vincono, difendiamo, buona linea difensiva, ordinati, precisi e alla fine commettono un errore. Mischia per noi dal lato opposto alla panchina e sotto la tribuna più gremita di tifosi.
L’arbitro prepara la ripresa del gioco: “crouch and hold...” Le mischie, legate, si abbassano pronte all’impatto. Da mediano di mischia, guardo Gigi appena entrato e lo vedo fare una smorfia di grande sofferenza. Un altra. Si slega dai piloni e si gira, sistema le seconde e si riposiziona. L’arbitro, dopo aver interrotto la sequenza di ingaggio, chiede se è tutto a posto e ricomincia: “crouch and hold...” Gigi, dopo l’ennesima smorfia, interrompe ancora, si slega, fa un passo avanti e si si accuccia in terra. Dalle tribune si sente un mormorio. Ci guardiamo gli uni con gli altri senza sapere che fare, se non chiedere al nuovo entrato cosa stesse succedendo. Lui si alza, mi guarda con uno sguardo terreo e mi dice: “c’ho uno strizzone! mi ca’o addosso!” 
lo lo guardo e mi guardo intorno, rispondo stupidamente: “non ce la fai a tenerla?” lui con una faccia sofferente scuote solo la testa. Mi viene da ridere ma trattengo le emozioni. Cerco di parlare all’arbitro ma non riesco a spiegarmi. Allora il capo si rivolge direttamente a Gigi ma è preso da altri problemi. Sono secondi interminabili, il pubblico rumoreggia e i giocatori dell’altra squadra sono impazienti di ricominciare. 
Chiamano il nostro medico in campo, arriva correndo, gli spieghiamo la situazione e lui chiede il cambio temporaneo... Ovviamente non si può, non c’è sangue. Insistiamo ma niente da fare. Allora il fiorentino di ferro tira fuori gli attributi e parla, anzi sbraita: “Ci vuole il sangue! Dottore prendi il bisturi! tagliami!!!” “ma cosa dici?” “dottore tagliami!!! Ho detto tagliami”  e gli porge l’avambraccio. Il pilone al suo fianco, gli prende il braccio e lo gira: “se tagli le vene altro che strizzone...”
A quel punto, con tutta la buona volontà, non potei più trattenermi e scoppiai a ridere, come altri di noi, mentre gli inglesi guardavano la scena con quello sguardo tipico di chi non capisce niente di cosa sta succedendo. 
L’arbitro cominciò ad incalzare, voleva trovare una soluzione, ma non voleva concedere il cambio per ferita. Gigi, all’ennesimo strizzone, partì di corsa, con le mani sulla pancia e un pò piegato in avanti, verso lo spogliatoio. Entrò dentro e ci lasciò là, tra le risa nostre, degli inglesi, dell’arbitro e anche del pubblico...ormai tutti avevano capito il grande problema dell’eroe del calcio fiorentino! Si era cahato addosso...ma era stato il freddo! Su quello ci potrei giurare!
Finimmo di giocare ma ormai il meglio lo avevamo dato lì, in quella mischia.

giovedì 22 dicembre 2011

LA DIETA

Al mondiale in Australia nel 2003, avevamo un preparatore fisico francese, Pascal Valentini, molto scrupoloso in fatto di alimentazione.
Quando fai sport ad alto livello, l’alimentazione è fondamentale per rendere al meglio, e lui ne era a conoscenza, nostro mal grado. Facevamo una riunione al mese, parlando di giusta alimentazione. Proteine, carboidrati, grassi, quanto e quando mangiare. Un grammo di carboidrati equivalgono a 4 calorie, un grammo di grassi a 9 calorie ecc... Eravamo diventati degli esperti...più o meno. Fatto sta, che Pascal ci teneva sotto stretta osservazione. Ogni raduno avevamo la pesata, il plicometro (uno strumento che serve per misurare i grassi corporei), e chi sgarrava si guadagnava la presenza al tavolo dei ciccioni. Non era un gran bel premio a dirla tutta. I ciccioni mangiavano molto poco rispetto agli altri, e soprattutto non potevano mai sgarrare, al contrario degli altri che una volta a settimana era concessa una crostata.
La preparazione a Nevegal durò tutta l’estate e il mondiale cominciava a ottobre. Per tutto quel periodo eravamo costretti ad una dieta ferrea. I grassi erano praticamente banditi.
Io sono sempre stato, e lo sono ancora, un gran goloso. Quella dieta mi stava un pò stretta, ma cercavo di seguirla...almeno quando ero in raduno. Gli ultimi venti giorni prima della prima partita, contro la Nuova Zelanda, fu ancora più difficile controllare gli impulsi della fame e della gola. Il volo di andata verso l’Australia, fatto in prima classe, comprendeva ogni ben di dio da mangiare, ma Pascal non mollava mai, era sempre pronto a riprenderci e rimproveraci. Pesante.
A Cambera in hotel, i pasti erano a buffet. Sul tavolo imbandito c’era qualsiasi cosa, ma spesso nel cibo mettevano troppo burro e quindi ci era vietato. C’erano dei panini buonissimi, lunghi e stretti, sembravano quasi grissinoni, ma erano leggermente più morbidi. C’erano anche delle ottime acciughe, con cui ci condivo spesso l’insalata. Qualche volta abbinavo acciughe e pane e mi facevo un paninetto come mi preparava mio nonno da piccolo. A dire il vero mancava il burro, ma quello era assolutamente off limits!
Passavano i giorni e, nella mia testolina, cominciavo ad associare i tre ingredienti: pane, burro e acciughe. Ma la partita contro la Nuova Zelanda si avvicinava costringendomi a scacciare via la malsana idea. Quanta pazienza.
Arriva il giorno della partita. Tensioni altissime, emozioni a non finire e rilassamento post-partita. Andiamo a cena, mi sistemo nel tavolo rotondo insieme ad alcuni ragazzi e noto che sul tavolo ci sono i panini vicino al burro ed alle acciughe...mi guardo intorno, non c’è traccia di Pascal. Dichiaro ai commensali: “Ora mi merito un premio! Non mi frega un bel niente della dieta! Mi sparo tre panini burro e acciughe!”. Risate.
Mi avvicino al buffet, carico il piatto con gli ingredienti e torno al tavolo. Mi siedo spalle alla porta e comincio a spalmare il burro sui panini. Uno alla volta, meticolosamente, sto facendo un capolavoro. Mentre spalmo faccio anche il verso, in francese, a Pascal: “non mangiare qui...non mangiare lì...” Al tavolo ridono tutti, forse anche troppo...
Finito di spalmare il burro, posiziono le acciughe, tre o quattro a panino, disposte a quarantacinque gradi rispetto al piano longitudinale. Riguardo la composizione sul piatto e ho già l’acquolina in bocca! I ragazzi mi fomentano: “ma si, chi se ne frega di Pascal! Mangia tutto!” 
Tutto soddisfatto, prendo il primo panino in mano, lo avvicino alla bocca e parto con un gran morso!
Tempo di stringere i denti, che dietro di me sento un urlo bestiale! E’ Pascal! Incazzato nero, mi riempie di insulti: “ooohhhh puten!!! che fai!?!? ti mangi il burroooo!!!! ooohhhh!!! mi prendi pure per il culooo!!!” Quante me ne ha dette. Tutti ridevano, tranne noi due. Lui urlava, ed io cercavo di mandar giù quel boccone che mi era rimasto di traverso...
Ovviamente quei tre panini meno un morso rimasero sul tavolo, e dovetti ripiegare su di un insalatina...con le acciughe però!

mercoledì 21 dicembre 2011

BENETTON TREVISO 17-L'AQULIA RUGBY 19 (semifinale scudetto 2000)

Il campionato era andato alla grande. Dopo un primo girone dove ci eravamo piazzati secondi dietro al Treviso, e conquistato l’accesso al pool scudetto, anche la seconda parte era andata a gonfie vele. Nessuno di noi si aspettava di essere così in alto e alla fine delle partite di qualificazione ci eravamo trovati al quarto posto, il chè ci consentiva di fare lo spareggio con la prima squadra di A2 (Gran Parma). La partita per raggiungere i Play Off lo giocammo a L’Aquila e vincemmo abbastanza agevolmente.
Semifinale conquistata! Già di per se era un gran risultato. Ci sentivamo soddisfatti del cammino compiuto, quasi appagati, ma...
Ma la partita decisiva l’avremmo giocata contro il Benetton Treviso, e per giunta in casa loro. Era una sfida troppo stimolante per lasciarsela sfuggire! 
Quell’Aquila era una formazione giovane, con qualche innesto di esperienza che sapeva guidare l’enorme energia del gruppo. Non credo di aver mai giocato in un altra squadra così tanto ben disposta verso le sfide. Giovani, ambiziosi ed arroganti al punto giusto. Sempre pronti a dimostrare di non essere inferiori a nessuno, e Treviso era la squadra giusta per stimolarci al massimo.
Ci avevamo giocato già quattro volte tre sconfitte pesanti 50-6, 39-14, 42-21 ma una volta in casa eravamo riusciti a vincere 27-16. Quindi, non erano invincibili.
Poi avevamo una città che non faceva mancare il suo sostegno. A modo loro. Nella settimana precedente alla partita, nessuno mancò di ricordarci che avevamo preso quasi 150 punti in tre partite...che probabilmente ci avrebbero travolto anche questa volta, e soprattutto menato. Ma era solo il modo aquilano per caricare il gruppo. Dovete sapere che in Abruzzo si può perdere, ma è inammissibile essere menati... Si sentiva tutta la voglia di rivalsa di tutto l’ambiente.
C’era solo un piccolo problema, eravamo in grande emergenza infortuni. Tra le tante defezioni più o meno rimpiazzabili, ci mancava soprattutto un tre-quarti centro. 
A dire la verità un centro, anche parecchio bravo, ci sarebbe stato, ma a Natale aveva litigato con l’allenatore (Mike Brewer) e aveva deciso non giocare più...aveva aperto un Pub in centro e ciao rugby. Nella città delle 99 cannelle, avevano aperto una cannella in più...succedevano anche queste cose.
Il martedì, ad allenamento, decidiamo di andare al locale dell’ormai ex-compagno di squadra per convincerlo a tornare. Lui in principio fu irremovibile. “No, con quello stronzo di allenatore non voglio avere più nulla a che fare!” Ma si sa, il rugby è irresistibile, e noi forti di questa convinzione insistemmo fino a strappargli la promessa che il giovedì sarebbe venuto ad allenamento.
Il giovedì venne. Pretese, a ragione, di non fare proprio tutto l’allenamento, in fin dei conti erano cinque mesi che non faceva niente! Se si fosse anche allenato avrebbe perso quel minimo di reattività che ancora gli rimaneva...
Venerdì rifinitura e sabato via a Treviso. In pulman, il ragazzo, era molto preoccupato perchè Mike lo aveva fatto provare un pò troppo. “Gli accordi sono che vengo per fare numero, ma gioco solo se c’è estrema necessità” questi erano i suoi convincimenti...
Il giorno della partita, Mike, da gran farabutto quale era, lo schierò titolare. Di fronte alla squadra, non si tirò indietro, fece solo dei versi strani, ma ormai era in ballo e voleva ballare fino alla fine.
La partita...e chi se la ricorda? Ricordo solo che non andò come le altre tre volte in cui ci avevano spazzato via dal campo. Tenemmo il campo alla grande, e più passava il tempo e più prendevamo consapevolezza che potevamo farcela. Eravamo in partita meritatamente.
Venti minuti dalla fine, touche per noi in attacco, palla veloce fuori, 9-10-12 e,  il centro recuperato al bar tre giorni prima, finta all’interno, salta Manuel Dallan e vola in mezzo ai pali. Meta, e che meta! E da chi! 
Mi è assolutamente impossibile descrivere la gioia, l’esaltazione, la fiducia in noi che quella azione ci diede...ci vorrebbe Baricco...
Insomma il centrino ci aveva messo lo zampino.
Nel tempo restante difendemmo col ! coltello tra i denti agli attacchi della Benetton, che però riuscì a segnare in bandierina dopo 8 lunghissimi minuti di recupero. A tempo scaduto, Corrado Pilat aveva la responsabilità della trasformazione decisiva per raggiungere i tempi supplementari. Purtroppo per noi piazzava tanto bene. 
Dei nostri solo alcuni ebbero il coraggio di guardare, alcuni tenevano le mani davanti agli occhi, altri girati, altri erano pronti a salire per disturbare il calciatore. Una cosa però facevano tutti. Gufavano! E gufavano da dio! 
Il calcio uscì e andammo in finale. Meraviglioso!!!
Quella rimane tutt’ora la partita giocata che più mi ha emozionato, indescrivibile!
Quel centrino, che per me rimane un eroe, era ed è sempre, Francesco Scipioni. Ci ha insegnato che per giocare a rugby ci vuole soprattutto la testa giusta, altro che fisico

lunedì 19 dicembre 2011

ALESSANDRO BARICCO

Non so se qualcuno si ricorderà l'articolo sul rugby, scritto sulla "Repubblica", da un certo Baricco, dopo una partita del Sei Nazioni giocata al Flaminio contro l'Inghilterra. Riporto qui sotto l'articolo.

Dentro la pancia del teatro Flaminio, Italia-Inghilterra di rugby, dieci minuti al fischio d’inizio. Il tunnel che dagli spogliatoi porta al campo è breve. una decina di metri e poi due scale di ferro che ti portano in superficie, dove tutto è erba, pali strani e tifosi ululanti al gusto di birra. Senti qualche porta sbattere e poi li vedi arrivare. Ventidue in maglia bianca, ventidue in maglia azzurra. Non ce n’è uno che ride, che parla, niente. Sguardi fissi davanti e facce che sembrano ordigni con la miccia corta. Accesa. Lentiggini e occhi chiari montati su fisici impressionanti, frigoriferi di forma umana, orecchie smangiate, mani ridisegnate da ortopedici pazzi.
Su una maglia azzurra scivola via, clandestino, un segno di croce. Quintalate di forza e velocità salgono di corsa le scale e i tacchetti sul ferro regalano un bellissimo rumore di grandinata improvvisa, subito ingoiato dall’ululato dello stadio che li vede sbucare. Baila, baila, oggi suonano il rugby. Musica geometrica e violenta. Gli italiani la suonano a orecchio, gli inglesi ci ballano su da generazioni. E’ una musica che ha una sua logica quasi primitiva: guadagnare terreno, guerra pura. Far indietreggiare il nemico fino a schiacciarlo contro il muro che ha alle spalle.
Quando gli rubi anche l’ultimo metro, di terra è meta. Un goal o un canestro da tre, al confronto, sono acqua tiepida, un giochetto di bravura per abbonati alla manicure. Una meta è campo cancellato, è scomparsa totale dell’avversario, è alluvione che azzera. Ci puoi arrivare per due strade: o la forza o la velocità. Gli italiani scelgono la prima, cercando il muro contro muro, dove il cuore moltiplica i chili per due e il coraggio trova strade impensabili tra tibie, tacchetti, colli e culi. Gli inglesi per un po’ ci stanno, si trovano sotto sette a sei. Allora fanno mente locale, si ricordano di quanto è largo il campo e iniziano a ballare. Si aprono a ventaglio, piazzano un paio di frustate sulle ali, fanno girare il pallone come una saponetta tra mani di ghiaccio. Lo score del primo tempo dice ventitre a sette per loro. Dice che la musica è la stessa per tutti, solo che noi suoniamo, loro ballano.
Nell’intervallo gli azzurri non scendono negli spogliatoi. rimangono in mezzo al campo, a guardarsi negli occhi. Calcisticamente parlando, sono sotto di due goal. Rugbysticamente parlando, non gliene frega niente. “Dai Italia, che ce la facciamo”, grida uno con un accento veneto da far paura. Capisci che loro, negli occhi, hanno solo la meta con cui hanno azzerato gli inglesi al settimo minuto, tutto il resto è inutile decorazione. Cos’è il rugby te lo trovi riassunto quando Alessandro Troncon, lì, in mezzo al campo, appoggia un ginocchio per terra, e gli altri si stringono intorno a lui, e d’improvviso c’è solo più silenzio. Troncon ha il numero nove sulla schiena, ma non ha niente a che vedere col centravanti fighetta che aspetta in area e poi raccoglie gloria con stilettate da biliardista. Troncon è il capitano, che nel rugby non è una fascia bianca al braccio del più pagato: lì capitano è il cuore e i marroni della squadra, uno che quando pensi mi arrendo lo guardi e ti senti un verme.
Troncon è quello che appoggia un ginocchio sull’erba, e poi si mette a urlare uno strano rap battendosi la mano sul petto, e il rap dice “qui dentro ci deve essere solo la voglia di andare DI LA’, placcare DI LA’, solo questo, correre DI LA’, spingerli DI LA’, schiacciarli DI LA’, vaccalamiseria”. Di là è il campo inglese, of course. Ci passeranno 25 minuti su 40, nel secondo tempo, gli italiani, di là. Ma alle volte non basta. Gli inglesi prendono martellate e restituiscono veroniche, e il campo sembra in salita, noi scaliamo, loro scivolano. Su tutta questa geometrica esplosione di elegante battaglia, domina l’assurdità di quel pallone ovale, geniale trovata che sdrammatizza con i suoi rimbalzi picassiani tutta la faccenda, scherzando un po’ tutti, e riportando il generale clima vagamente militare ai toni di un gioco e nient’altro. Gli ultimi secondi ce li giochiamo a un soffio dalla linea di meta inglese, buttando dentro tutti i muscoli rimasti e folate di appannata fantasia.
Non ci sono altri sport così. Voglio dire, sport in cui a trenta secondi dalla fine trovi gente disposta a buttarsi di testa in na rissa per perdere 17 a 59 invece che 12 a 59. Forse il pugilato. Ma un pazzo lo si trova sempre: quindici è più difficile. I nostri quindici escono dal campo con gli inglesi che li applaudono, e sono soddisfazioni. A seguire, il terzo tempo: di solito una bella sbornia al pub, tutti insieme, vincitori e sconfitti. Ma qui è il Sei Nazioni, una cosa solenne. Quindi cena in smoking. Ammesso che esistano smoking di quelle taglie.

Ora vi racconto il mio punto di vista...
Italia-Inghilterra del primo Sei Nazioni. Dopo l'esordio col botto contro la Scozia si sono accesi i riflettori sulla palla ovale. A Tirrenia, il nostro campo base, i giornalisti aumentano a dismisura, anche i britannici cominciano a calcolarci come svversari di tutto rispetto. Personaggi vari, curiosi, procuratori, offerenti di sponsor stanno facendo capolino nel nostro ambiente. Spesso non abbiamo idea di chi siano, e cominciano addirittura ad essere un pò troppo invadenti. Fino ad un mese prima non ci considerava nessuno e adesso sembriamo dei divi...più o meno...
Andiamo a Roma per la partita, piuttosto tesi e carichi, pronti a dare il massimo.
Il giorno della partita, come è naturale, siamo molto nervosi. Come sempre, sono in panchina. Riscaldamento. Appena esco dallo spogliatoio, quasi sbatto contro un signore che si era piazzato proprio all'uscita dello spogliatoio. Scuse reciproche e via in campo.
Cinque minuti prima dell'inno rientriamo e troviamo lo stesso signore allo stesso posso. Nessuno lo conosce, rientriamo dentro, ma a qualcuno viene il pensiero: "ma chi è quello che sta lì, quasi in spogliatoio?"
Le squadre entrano in campo e quel signore è sempre là, troppo vicino. Cantiamo gli inni e la panchina ritorna al suo posto.
Adesso è seduto in panchia...ci accomodiamo anche noi, ma la presenza del silenzioso spettatore comincia ad essere poco gradita. Nessuno osa dire niente, anche perchè se è lì, vuol dire che qualcuno lo ha fatto entrare e gli ha permesso di starci così vicino. Strano, ma lasciamo stare, siamo troppo presi dalla partita per perdere energie su queste cose.
Il match però, nonostante il nostro impegno, si mette male. Ai nostri pik and go, l'Inghilterrra risponde con belle azioni al largo che ci mettono decisamente in difficoltà.
Il personaggio misterioso ad ogni bella azione loro, mostra segni di gradimento. E' troppo!
In certi momenti, quando hai l'adrenalina in circolo, fai presto ad alterarti...
In una delle mie famose sparate d'impulso, mi giro e gli dò un piccolo colpetto col culo per farlo alzare! Lui si gira, sembra che voglia chiedere scusa, ma non gli dò tempo e con aria tra l'incazzato e lo scerzoso tipica della mia città, gli dico: "Via sù...signore, vada un pò più in là! non si è accorto che questa è la nostra panchina! Via...via..."
Lui con estrema educazione, mi guarda e risponde: "scusate, non pensavo di disturbare, vado via subito". Gentilissimo. Sento di aver fatto una bischerata, ma ormai è fatta.
Tutto felice per essermi sbarazzato dell'intruso, mi rilasso. Tempo trenta secondi, e si avvicina un alto dirigente che mi dice: "Ma che hai fatto?! Non sai chi era quello???" ed io: "era un rompic...i" "ma quale rompic...i, quello è Alessandro Baricco! il coglione sei tu!"........silenzio.....
Gran bella figura di merda mi ero appena regalato!
Il giorno dopo, leggendo l'articolo, mi sentii davvero uno stupido!
PS: magari non leggerà mai queste parole, ma se lo facesse, dico Baricco, vorrei che sapesse che mi è dispiaciuto tanto e vorrei scusarmi...Ciao Ale!

giovedì 15 dicembre 2011

IVAN FRANCESCATO

E' molto difficile ricordare il mito Ivan, provo a raccontare un piccolo aneddoto su di lui.
Chi era Ivan Francescato? Per quanto mi riguarda, era il mio idolo e modello da seguire. Quando arrivai a Treviso per la mia prima avventura in biancoverde, non fu facile adattarmi alla mentalità di grande squadra e soprattutto alla città. Treviso è accogliente e carina, ma come è noto non è una città che ti accoglie e ti coccola come un figlio. Se nasci in zona bene, ma se ci vieni a vivere per lavoro o simili, devi conquistarti la fiducia ed il rispetto dei cittadini comportandoti a dovere. Niente di male, ma per un ragazzo di 18 anni ancora da compiere senza famiglia o amici vicino, non è facile. Diciamo che sono stati anni duri, sotto l'aspetto sentimentale.
Ero venuto per giocare a rugby e studiare. E questo facevo. Ma gli allenamenti in prima squadra con gente come Isi Trevisiol, Guido Rossi, Annibal e vari vecchi personaggi non erano proprio facili da affrontare. In più c'era un certo Troncon, nel mio ruolo, che stava emergendo a livello mondiale. Insomma prendevo un sacco di botte e chiacchere zero. Soddisfazioni davvero poche.
Ivan era uno che scherzava sempre e dopo le prime settimane fu il primo dei vecchi senatori che mi rivolse davvero la parola con interesse. Non capii gran chè, visto che parlava sempre in dialetto stretto, ma poco male, risposi, un pò a caso, con il mio vernacolo stretto livornese e credo che pure lui non capì le mie parole. Non fù il massimo dei dialoghi... Ma la cosa significativa era che il grande Ivan Francescato mi aveva rivolto parola interessandosi a me, ero al settimo cielo. La sera telefonai a Babbo e raccontai il tutto.
Insomma, già era il mio idolo sportivo, ora lo era ancora di più. Lo seguivo a distanza e ascoltavo tutto quello che diceva. Lo vedevo giocare e sognavo un giorno di imparare a fare quella dannata finta di ciuffo con cui lasciava tutti sul posto. Non ci riuscii mai.
Comunque, a metà settembre andammo in Galles in tournee. A quel tempo il rugby italiano era considerato poco o niente Non che fossimo peggiori di adesso, anzi, ma non facevamo parte del 5 Nazioni, semplice.
In Galles ci allenavamo mattina e pomeriggio, e la sera uscivamo un pò. Io, neanche a dirlo, cercavo sempre di uscire con Lui, e non sempre la cosa era di suo gradimento..."basta ceo a gò da usir da solo!" (più o meno)
Insomma, per una settimana frequentammo Cardiff da perfetti sconisciuti. Nessuno ci degnava di uno sguardo, anzi quando capivano che eravamo rugbysti Italiani ci trattavano con un pò di supponenza.
Tutti tranne uno.
Uno dei primi giorni, mentre stavamo caminando in centro, un paio di ragazzi ci avvicinano e guardano Ivan. Lo guardano per qualche secondo poi domandando: "Franciescatò??" Lui li si volta e schivo com'era risponde sotto voce. Loro non capiscono e insistono: "Franciescatò??" Allora qualcun altro risponde per lui.
A quel punto si scatenano! Cominciano a fargli i complimenti per come gioca, gli mimano le sue finte, gli spiegano le azioni più belle che ha fatto e contro chi! Incredibile! In 5 minuti si forma un capannelo di gente che gesticola. Una scena bellissima e indimenticabile! Era l'unico rugbysta italiano tanto bravo da essere conosciuto in Galles. Unico.
Ecco, così me lo ricordo. Ciao Ivan, un abbraccio!

martedì 13 dicembre 2011

TOTO' & ZAPPO'

Salvatore Perigini, detto Totò. Un bel personaggio, non c'è che dire. Lo conosco per la prima volta a L'Aquila quando, insieme a Maurizio Zaffiri vengono a prendermi al Centi Colella per portarmi all'appartamento designato e farmi fare un giro in città. Maurizio lo conoscevo già abbastanza bene, ma con Totò era la prima volta che ci passavo del tempo insieme.
Io avevo 22 anni ancora da compiere, loro erano di poco più giovani di me. Arrivano al campo con una Lancia Thema, Zappò alla guida come un tassista e Totò dietro... Scendono, ci salutiamo molto cordialmente, facciamo due chiacchere, i dirigenti mi danno le ultime istruzioni e vià, si parte. Dividerò l'appartamento con Totò e Giancarlo Verdura. 
Mentre ci avviamo alla macchina, Zappò si affretta ad andare ad aprire la portiera di Totò, proprio come uno Chauffeur. Guardo la scena un po' strana e cerco di salire nel sedile davanti, ma i ragazzi insistono per farmi salire dietro, "stai più comodo" mi dicono. 
Partiti, Totò comincia a lodare le doti di autista di Maurizio, dice che conosce molto bene la città, sa evitare il traffico e soprattutto ha una guida docile. Mah... Mi mostrano dov'è casa e poi mi portano in una pasticceria, dove assaggiamo alcune prelibatezze locali. Due chiacchere piacevoli e alla fine Totò, con aria da gran signore va e paga per tutti. Inutile cercare di fermarlo, è irremovibile, siamo suoi ospiti. Guardo Maurizio e lui con uno sguardo di intesa mi fa capire che è sempre così, Totò non vuole che si paghi quando siamo con lui. Un signore, non c'è che dire. Il giro continua, le 99 cannelle, la basilica di Collemaggio, il centro. Ad ogni fermata la stessa storia, un caffè, una pizzetta, una coca cola per tutti e paga sempre il Boss. Ogni volta che rimontiamo in macchina lo chauffeur apre lo sportello a Salvatore e io mi siedo dietro. Cominciano a farmi complimenti...prima mi dicono che apprezzano come gioco, poi che ho gioco fisico come piace a loro...soprattutto a Totò...poi complimenti al fisico, sei robusto, muscoloso...Ad un certo punto sento toccarmi una gamba, mi giro ed il Boss dice: "che gambe forti..." 
Sono decisamente perplesso, un po' infastidito. Guardo Zappò dallo specchietto ma per lui è tutto normale. Rido, penso che stiano scherzando.
La cosa va avanti tutto il pomeriggio. Dopo un po' chiedo apertamente di smetterla, che la cosa non è di mio gradimento. Allora Totò ride e dice: "dai Zappy diglielo tu, è normale, fra amici avere certe confidenze...". Guardo Maurizio e lui conferma: "ma si Matteo, non c'è nulla di male, sai a Toty piace avere amici dolci da accarezzare, non ti preoccupare...." lo dice seriamente, senza lasciar trapelare tentennamenti. Comincio ad essere preoccupato. Chiedo comunque, con decisione, di essere lasciato in pace. Per un po' fila tutto liscio, andiamo a cena e Totò fa di nuovo lo splendido offrendo tutto. 
Si torna a casa, per la notte. Sono preoccupato. Appena in macchina, ricomincia la commedia, ancora più spudorata. Arriva addirittura ad un tentativo di abbraccio che respingo decisamente. Sono più che preoccupato, penso alla notte da solo in casa con Totò. Cazzo è un energumeno, se è vero che ha certi istinti dovrò essere pronto a tutto. Mi sto caricando come prima di una partita! Sono teso al massimo, sono incazzato e lo dimostro in macchina. Zappò si ferma nel parcheggio di casa ma non voglio uscire. Voi siete matti, io non ci sto! Urlo. Scatto fuori da quella Lancia, pronto a tutto. Alzo le mani e mi incazzo come un matto, ormai ho perso il lume della ragione. Sono in quello stato in cui qualsiasi cosa ti dicano, tu non ascolti più! Totò tenta un ultimo approccio, ma la mia reazione è definitiva. Sbraccio e spintono entrambi, sono pronto ad alzare le mani, forte!
Il simpatico scherzone è andato in porto, ci sono cascato alla grande. Ridono a crepa pelle, provano a parlarmi per convincermi che era uno scherzo, ma non trovano più le mie orecchie pronte ad ascoltare. Ci vuole un pò di tempo prima di convincermi, ma alla fine salgo. 
Che giornataccia ho passato. Quando sono a letto in camera mia, penso: “ma se fosse stato vero?? L’unica difesa era non farmi prendere...”
Mi alzo e chiudo la porta. A doppia mandata!


domenica 11 dicembre 2011

MARIO PRIVITERA come siamo diventati amici

L'Aquila, stagione 1999-2000. Arriva Brewer e qualche rinforzo di esperienza alla squadra. Uno di questi è un omone siciliano piuttosto taciturno. Primo allenamento, come ho già  raccontato, fu al limite della sopravvivenza, non avemmo modo di familiarizzare subito con i riforzi. Nei giorni e settimane che seguirono, avemmo modo di stringere i rapporti. Il grosso siciliano era un certo Mario Privitera da Catania, seconda linea di fatica, grosso e pesante e con molta esperienza in touche, uno che in un modo o nell'altro sapeva conquistarsi i suoi palloni.
Fuori dal campo era una persona piacevole (lo è sempre immagino...), in campo era un fabbro. Menava parecchio forte, e a l'aquila quella era una qualità molto apprezzata. Pian piano facemmo amicizia, ma senza mai esagerare con le confidenze, ognuno di noi rimaneva ad una certa distanza.
Venendo da due città di mare, una cosa ci accomunava, la poca sopportazione per il freddo...e in quella città, è noto, che il freddo si fa sentire.
L'anno prima, con tanta fatica, mi ero conquistato il posto in spogliatoio vicino al termosifone. Alle prime gelate avemmo i primi, banali screzi. Io arrivavo sempre un po' prima ad allenamento, per fare passaggi o calci, mi cambiavo al "mio" posto, ed andavo in campo. Ogni volta, finita la seduta, tornavo in spogliatoio e trovavo i miei vestiti spostati e sistemati su di un attaccapanni più lontano... Ogni volta riprendevo la mia roba e la rimettevo al suo posto. Succedeva, più raramente anche il contrario... Ora non stiamo a puntualizzare su chi lo facesse più spesso...
La cosa andava avanti, ma gli animi si inasprivano ogni volta di più.
Un giorno, io arrivo, mi cambio e vado ad allenarmi, poco dopo arriva anche Mario. Questa volta, voglio difendere il mio posto di persona. Vado in spogliatoio e lo trovo con le mani nella marmellata...lo fermo e rimetto la mia roba al suo posto originario. Lui mi lascia fare e poi la risposta. Partiamo scherzando, ma la situazione degenera velocemente. Lui, un po' prepotente, mi allontana e mi dice: il posto è mio perché sono più grosso. Ovviamente quella frase mi infiamma l'animo. Riprendo la mia robetta e tento di rimetterla al suo posto. Lui, forte della sua stazza fisica, mi spintona e mi allontana...
Parto con un sinistro!
Babbo mi diceva sempre:"non ti picchiare mai...ma se proprio devi, parti per primo e picchia forte!" Avevo ascoltato solo la prima lezione, ero partito per primo, spinto dall'impulso, ma non ero proprio convinto e non avevo picchiato forte...Grandissimo errore!
La reazione non si fece attendere. In un attimo mi dovetti impegnare a schivare le fiammate che Mario tentava di ammollarmi! Sembravo un anguilla! Fortunatamente dentro lo spogliatoio c'era un enorme tavolo di legno, tanto pesante che si faceva fatica a spostarlo in due, mi misi dietro il tavolo e cominciai a girarci intorno in modo da mantenerlo tra me e la bestia... Dentro di me pensavo: ma che cazzo ho fatto! ora come ci esco da qui? Sono il solito coglione impulsivo!
Insomma la vedevo parecchio male... Cominciai a gridare cose abbastanza assurde del tipo: "ti spacco in due! Stronzo, ti meno! Se ti prendo...!" Non credevo per niente alle mie parole, ma lo scopo era attirare l'attenzione di qualcuno!
Purtroppo però, al Centi Colella non c'era nessuno. La cosa andò avanti per qualche minuto, cambiai strategia, cercai anche di dissuaderlo. Non funzionò, anzi, Mariolino ebbe un sussulto di rabbia e prese quel tavolone pesantissimo e lo scaraventò di peso a terra. Panico. Mi tuffai in avanti per cercare di colpirlo prima che potesse ritrovare la coordinazione, ma non servì. Si parò dai miei colpi e mi agganciò per un braccio.
Non sò se mi tirò anche dei cazzotti, mi ero chiuso per ripararmi. La cosa che so è che mi prese per le gambe e mi chiuse a libro! Stringeva maledettamente forte. Urlavo, ma avevo sempre meno fiato in corpo. Ero spacciato! Pensavo che mi partisse qualche costola...


Poi una voce. Una voce celestiale. Era Topò, Antonello Comperti. Quanto fui contento di sentirlo! Appena vide la scena, ci separò. Anzi lo convinse a lasciarmi, per essere più precisi. Io, mezzo morto, presi aria e...non ricordo bene che feci, so solo che il posto se lo tenne lui e da quel giorno preferii adattarmi al freddo, piuttosto di rimettere in discussione il termosifone...
Con Mario, dopo quanto accaduto, almeno dopo il tempo fisiologico da parte mia di assorbire la sconfitta, tornammo amici, anche più di prima! Anzi, a dire la verità, gli voglio proprio bene, è stato un gran compagno di squadra, uno di quelli che non ti lascia mai da solo, e se un domani tornasse a giocare con me, gli terrei un posto vicino ad un bel termosifone!

sabato 10 dicembre 2011

BREWER gli allenameti


Una partita di rugby è uno spettacolo offerto agli spettatori, proprio come una rappresentazione teatrale. A teatro gli attori provano tutti i giorni, per ore, giorni, mesi per presentarsi alla “prima” pronti e preparati. Mike Brewer aveva questa idea del rugby. Ore ed ore di prove!
Ci allenavamo alle 14.30, dopo una prima parte di allenamento tradizionale, con i classici 3 vs 2, placcaggi, pulizie dei punti incontro, cominciava la rappresentazione della partita...
Dava la squadra per la domenica e i 15 prescelti provavano gli schemi. Solo i 15 titolari. Le riserve, si allenavano a stare seduti in panchina. Incredibile, o giocavi, quindi ti allenavi, oppure te ne stavi seduto a guardare gli altri che provavano gli schemi. 
L’unica speranza era che il tuo diretto concorrente sbagliasse qualcosa. Erano concessi 2 errori, al terzo ti accomodavi in panchina e la tua riserva subentrava nella rappresentazione. Nessuna eccezione, mai. Un pò strano ma aveva una sua logica, la disciplina.Non fu proprio facile adattarsi al suo metodo di allenamento, ma col tempo riuscimmo a farlo.
Verso la metà del campionato, solito allenamento alle 14,30. E’ l’ultimo prima della partita della domenica. Partita piuttosto importante, anche se non ricordo contro chi. Cominciamo con un quarto d’ora di riscaldamento, poi da la formazione e proviamo la squadra. Questa volta aggiunge una postilla: “dobbiamo crescere, dobbiamo imparare a non perdere palla per almeno 40 minuti”. La conseguenza pratica era il provare le giocate per 40 minuti senza fare un “in avanti”. Beh si provava a vuoto, senza avversari...sembrava fattibile.
Prima azione, palla a terra. Seconda azione, molto bene, finiamo il campo e segnamo. Mike ferma il tempo, devono essere 40’ effettivi. Si riparte dalla nostra area di meta e facciamo un altro campo senza errori. Andiamo avanti belli sciolti per una ventina di minuti durante i quali sembriamo davvero un ottima squadra. Penso: dai che stiamo facendo un buon allenamento! Ma a questo punto cade la palla...Mike azzera il cronometro e ci fa ripartire da capo. Conoscendolo, nessuno si aspettava che ci abbonasse l’errore. Un pò infastiditi, ricominciamo.
Avanti, indietro, avanti, maciniamo chilometri di campo facendo le giocate preordinate. Passano 25 minuti e cade un altra palla. Cazzo! Dai ragazzi, mettiamoci un pò di attenzione! Si ricomincia, 5 minuti e via, un’altra palla a terra. Poi altra azione ed altro errore. Abbiamo perso la concentrazione e la cosa si fa difficile. Intanto Brewer sta lì, conta i minuti e non dice nulla, se non il cambio Carpente per Rotilio che aveva perso due palloni.
Passa il tempo e siamo sempre più stanchi. Sono un pò scoraggiato, dopo due ore e mezzo che siamo in campo, si sente tutta la fatica fisica e mentale. E’ veramente stressante. Cominciamo a litigare tra noi. Quando qualcuno sbaglia, gli altri 14 vorrebbero ucciderlo... fin chè ti trovi nella situazione opposta e capisci che se hai fatto un errore non è perchè eri distratto, possono esserci mille motivi. Siamo stanchi!
Mike ci chiama per una pausa acqua. Ci spiega la storia del teatro, la prende lunga, ma alla fine conferma che se non riusciamo a fare 40’ senza perdere una palla non ce ne andiamo! Che palle, non ne vuole sapere di venirci incontro.
Saranno le 17 più o meno, quindici minuti di stop e ripartiamo, i 15 giocano e la panchina a sedere. Questa volta cambio strategia. Partendo da touche, chiamo la spinta e faccio avanzare, davanti non c’è nessuno e non è utile, ma almeno rischiamo di meno. Earl Va’a, l’apertura, chiama giocate facilissime, spesso non la passa neanche per non rischiare. Siamo decisi a fare quei maledetti 40’ di gioco senza perdere palla!
Nonostante tutto l’allenamento va avanti ad oltranza. Siamo nervosi e tesi, tutti contro tutti, ma soprattutto tutti contro Mike! Ebbene si, il collante più forte della squadra è l’odio verso quel generale del diavolo!
Alla fine, dopo più di 4 ore e mezzo ce la facciamo, 40’ senza sbagliare, un eternità! Sono le 19 ed è finita. A livello mentale è stato molto peggio che giocare una partita. è stata durissima.
Quella squadra, l’anno prima si era salvata alla penultima giornata di campionato, ad un anno di distanza avrebbe battuto il Benetton Treviso in casa loro. A qualcosa era servito insistere tanto sulla disciplina...

MIKE BREWER, la presentazione

Nella stagione sportiva 1998/99 ero a L’Aquila. Ci eravamo salvati, ma il campionato non era stato proprio dei migliori. La prima vittoria arrivò a Natale e per la seconda dovremmo aspettare altri due mesi. Per fortuna la formula un pò strana dei due gironi da 6 ci aiutò a rientrare in corsa per la salvezza. Nel girone dei play-out, nonostante fossimo rimasti senza allenatore finendo il campionato in autogestione, riuscimmo a salvarci ad una partita dalla fine. Sarebbe stato troppo umiliante essere la prima compagine aquilana retrocessa in seconda serie...
L’anno successivo, la dirigenza si era mossa per tempo ed aveva inserito in società, Gino Troiani e Mike Brewer.
Gino, lo conoscete tutti spero, ex nazionale di grande spessore, ma soprattutto persona molto seria ed affidabile.
Mike Brewer, Neozelandese, ex terza linea degli All Blacks che avevano perso la finale mondiale nel 1995 contro il Sud Africa. Arrivava a L’Aquila con la fiducia incondizionata di tutta la società e squadra. Si era persino portato un personaggio che avrebbe dovuto riorganizzare il lavoro negli uffici al Centi Colella...lavoro non facile...
Bene, primo allenamento.
Ci troviamo al Centi Colella ore 15. Alle 15,20 ancora non ci sono tutti i ragazzi, a quel tempo non è che la puntualità fosse un nostro punto di forza...Mike, era leggermente infastidito, ma manteneva il contegno tipico anglosassone. Iniziamo. L’allenamento  avrebbe dovuto essere solo una piccola sgambata per ritrovarci e conoscere i nuovi giocatori che erano arrivati, e invece si tramutò in tragedia.
Ci dividemmo in due squadre e giocammo ad un toccato molto soft. Ogni 2 passaggi uno cadeva in terra. Tutti venivano da un estate di rilassatezze e avevano voglia di fare due risate, più che di fare un allenamento. Tutti provavano sottomano, passaggi ad una mano, dietro la schiena e puntualmente cadevano a terra. Dopo i primi minuti, Mike evidentemente disturbato dall’atteggiamento troppo rilassato, ci richiama all’ordine, ma l’ambiente non era per niente abituato ad avere un controllore severo. Continuammo a far cadere decine di palloni.
A questo punto, il nuovo allenatore perse la poca pazienza che era riuscito a trovare. Urlò: “Da adesso fino alla fine, per ogni pallone che cadrà farete una HITLA”. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa significasse Hitla, continuammo a cazzeggiare ancora per un pò, e lui cominciò a contare le palle cadute. 1,2,3...45, 46...intorno alla quarantina, a qualcuno venne il dubbio che fossero esercizi punitivi... Con questi dubbi in testa, cercammo di impegnarsi un pò di più, ma nonostante tutto, alla fine dell’allenamento arrivammo a 77 palle cadute.
Senza farci bere o riposare un attimo, ci fece schierare tutti sulla linea di touche e ci spiegò molto velocemente che le Hitla erano delle navette di 10 o 20 metri, andata e ritorno, da fare al massimo della velocità. Il riposo lo decideva lui di volta in volta. 
Quelle 77 navette furono durissime da finire. Brewer urlava come un invasato:”correte! dovete imparare la disciplina! avanti! ancora!”
Se qualcuno rallentava, quello si avvicinava e cominciava ad urlargli contro tutta la sua rabbia. E di rabbia sembrava che ne avesse da vendere! Una cosa incredibile! Quell’invasato sbraitava come un matto, gli colava la bava dalla bocca come ad un Terranova. Eravamo decisamente intimoriti, dalla rabbia, dalla stazza e dalla bava! Facemmo le navette, tutte. In quattro o cinque si fermarono per vomitare, ma poi il Bovaro gli fece scontare la pena fino all’ultimo.
A sera rimanemmo in pochi al bar del Centi Colella, ci guardammo e fummo concordi nel pensare: “ Sarà una stagione molto lunga ed impegnativa!” 

venerdì 9 dicembre 2011

Un pò di chiacchere

In adolescenza, quando giocavo nell'U15 del Rugby Livorno, ero un ragazzino molto piccolo, direi il più piccolo, ogni allenamento per me era una prova da affrontare e solo il fatto di scendere in campo era un esame molto duro. Uno degli aspetti che mi distinguevano dagli altri, oltre alla minutezza del fisico, era il mio proverbiale odio per la sconfitta, ogni volta che si perdeva mi scendevano lacrime a fiumi, ne soffrivo terribilmente e non potevo farci niente, nonostante mi sforzassi di accettarla. Anche nelle partitine di allenamento, quando il coach dava il via alla contesa, per me cominciava una sfida personale...sentivo quei brividi lungo il corpo, quella eccitazione dei sensi, che mi rendevano vigile ed attento ad ogni particolare. Nel momento che l'allenatore spiegava le regole di gioco, ero sempre attentissimo per capirle e interpretarle con fantasia, per giocare con efficacia anche in carenza di efficienza fisica. Intendiamoci, ero un piccoletto, ma non avevo niente di patologico...
Mio padre, che è stato un ottimo giocatore, ma anche un grande allenatore, mi diceva sempre di non mollare mai, anche di fronte ad una montagna, anche di fronte ad un ostacolo che sembrava insormontabile, di lottare fino alla fine, di credere in me. 

Avevamo un bastone da pastore piantato in un vaso sul terrazzo di casa, era bello, levigato, secco, morto...  Quando Babbo mi parlava di rugby e di allenamenti vari diceva sempre: "annaffia il bastone!"
Ma che è sto bastone? Mi chiedevo, ma che vuoi che cresca da un bastone vecchio e rinsecchito?!
Poi arrivarono gli anni dello sviluppo, finalmente avevo due peli sotto le ascelle, e non solo...cominciavo a sentirmi un po' uomo anch'io e obbiettivamente oltre a sentirmi più forte lo stavo diventando! Riuscivo a piazzare anche più lontano che dai 22...passavo la palla fino a 8-10 metri...e soprattutto placcavo! E che placcaggi!
Per anni mi ero ingegnato a trovare un modo poco doloroso ed efficace per buttare a terra gli avversari (e compagni di squadra negli allenamenti), avevo sofferto della mia gracilità e adesso sentivo i compagni farsi più morbidi e flaccidi, sentivo che pian piano guadagnavo terreno sull'aspetto brutale della forza fisica! Ormai avevo preso gusto a sfidare chi mi si parava di fronte e, pur rimanendo piccino di statura, riuscivo a dare del filo da torcere anche ai più grossi.
Il segreto di tutto questo?...per anni mi ero impegnato a capire il gioco ed allenato con caparbietà e tenacia, credendo in me. Adesso con il naturale sviluppo tutto era più facile...avevo annaffiato il bastone secco fino a farlo diventare una quercia.

giovedì 8 dicembre 2011

Come ho perso la Nazionale...

Il mondiale è finito. Nonostante tutto sono felice per aver vissuto una esperienza fantastica, anche se mi rimangono in mente le ultime parole di John Kirwan: "...hai tradito la nostra maglia". Tradito? Nostra maglia? Tralascio tutte le varie considerazioni che si potrebbero fare in certi casi e dico solo che sono furioso. 
Fortunatamente ci aspetta ancora il viaggio di ritorno in Italia. Il giorno della partenza da Roma avevamo scoperto, con grande piacere, che  uno sponsor del torneo, la Quantas, aveva offerto a tutte le delegazioni un viaggio di andata e ritorno in business class. Per chi non è mai stato, riassumo le comodità. Poltrona che si allunga in comodo letto, una hostess ogni 6-8 persone a disposizione come un cameriere, cibo e bevande di grande qualità e soprattutto a volontà. Insomma all'andata, avevamo evitato aragoste, champagne e cocktail vari, ma al ritorno eravamo ben decisi ad approfittarne. Dopo un estate di allenamenti in montagna e un mese di clausura in Australia ci meritavamo proprio un po' di svago…
Al primo raduno dopo i mondiali erano convocati troppi mediani per i miei gusti…4 ufficialmente e e un altro ufficiosamente. Si parlava tanto di ricambio, e speravo proprio che questo ricambio riguardasse dar spazio a chi era stato in panchina per 4 anni…Invece no. Dopo una vita in cui ero stato trattato da "giovane apprendista" ero passato subito a "vecchio da pensionare". Era proprio questa la sensazione che avevo. In più JK aveva chiamato due ragazzi neozelandesi (più vecchi di tutti noi) ed aveva chiaramente intenzione di affidare la mediana ad uno di loro.
Dunque le premesse al primo raduno non erano delle migliori. E' un ritrovo, di un giorno, per valutare la forma fisica e dare le prime indicazioni sul 6 Nazioni che verrà. Nei test vado più che bene, poi al pomeriggio riunione video. 
Fianco a me c'è Franco Bernini, allenatore della Nazionale A. JK ci mostra un video che secondo lui doveva illuminarci su come battere l'Inghilterra alla prima partita del 6 Nazioni prossimo. Descrivo il video, è importante. Partita Inghilterra-Samoa. Calcio d'inizio dell'Inghilterra, Samoa riceve nei propri 5 metri e comincia una azione di contrattacco. Gli inglesi placcano duro, ma i samoani non perdono il possesso e conquistano terreno. Vanno da un lato del campo all'altro sventagliando la palla con disinvoltura. Ad un certo punto un pilone fa un passo dell'oca e se ne va debordando un centro, che poi lo riprende in velocità, ma il pilone con un sottomano rilancia un tallonatore che buca la linea difensiva e apre per l'ala che però viene placcata. Le fasi si susseguono una all'altra, sempre di enorme qualità, fin che il contrattacco finisce con la meta delle Samoa dalla parte opposta del campo. Forse una delle più belle azioni mai viste, fenomenali.
JK interrompe il video e ci dice, tutto serio: "E' facile battere gli Inglesi, dovete fare così!"…silenzio imbarazzato mentre dentro di me penso: "Grazie ar cazzo".
Mi giro, incrocio gli occhi di Bernini e ci scappa un sorriso. A quel punto JK mi guarda e col suo italiano stentato, sbraita: "Che hai da ridere Matteo?! tu non pensi che possiamo farlo?! Tu non pensi che possiamo battere l'Inghilterra?! Tu non credi in noi! Tu sei sempre il solito! bla bla bla.
Neanche il tempo di rispondere e lui aveva fatto tutto da solo. Mi aveva eliminato per la seconda ed ultima volta.
Poi mi dicono perché non tifo Nuova Zelanda...
Ps: questo racconto, in principio, era stato scritto leggermente diverso,  ma fortunatamente qualcuno mi ha fatto cambiare idea e l'ho modificato. Avrei voluto gridare al mondo le vigliaccate fatte, ma è più carino così. Spero sia di vostro gradimento...

martedì 6 dicembre 2011

MONDIALI 2003 come ho perso la nazionale

Credo, o meglio spero, che molti si ricorderanno il mondiale giocato nel 2003 in Australia. C’ero anch’io. Nel riscaldamento della partita contro il Canada, Troncon ebbe qualche problemino personale. Mai saputo quale. Per quanto mi riguarda, la cosa significativa fu che a 5 minuti dall’ingresso in campo, quando le squadre avevano già finito il riscaldamento, e le panchine, me compreso, stavamo andando a prendere posto nella nostra postazione di spettatori privilegiati, venne John Kirwan a dirmi: “scaldati come puoi perché giochi tu”. Esplosione emozionale. Col cuore a mille vado in campo a scaldarmi come un invasato. Andature, sprint, navette, passaggi senza tregua per 3 minuti. Torno dentro, atleticamente freddo, ma mentalmente infuocato, e Kirwan mi dice: “Che fai? Vestiti e vai in panchina!” Ma come? Va beh… eseguo. Mentre faccio il corridoio che porta in campo, mi sto rivestendo del tutone termico, incontro il preparatore che mi guarda perplesso e dice: “non sei ancora pronto? Che aspetti, devi giocare!” Lo ragguaglio mentre passano i tiolari, e mi accomodo in panca.
La partita è, come sempre, molto combattuta, ma abbiamo i mezzi per vincerla. Finisce il primo tempo e con il resto delle riserve vado a fare una corsetta per tenermi caldo. Passano 2 minuti e arriva il preparatore e mi informa che giocherò da subito…  “programmazione all’italiana” penso.
Entro, per i primi dieci minuti tutto bene, credo anche di aver dato un bel ritmo, poi dopo una mischia per il Canada nei loro 22, faccio pressione al mediano che sbaglia il passaggio, Parisse raccoglie, rilancia Manuel Dallan che entra in meta di forza. Abbiamo fatto il break decisivo…forse.
Nella rimessa da centrocampo che segue cominciano gli errori. Prima De Rossi sbaglia la presa, poi io per calciare scivolo e tiro un rasoterra in touche. La tensione in squadra sale incredibilmente e loro, ovviamente, ne approfittano. Ci mettono sotto, con tanta pressione e forza fisica. Nonostante tutto, riusciamo a tenerli sotto nel punteggio, ma ad ogni azione c’è qualcuno che ne combina una. L’ultimo errore è un mio passaggio rasoterra per Rima Wakarua che fortunatamente raccoglie e ci mette una pezza. Loro attaccano, senza grandi manovre, ma con tanta voglia. Sono folate pericolose. A pochi minuti dalla fine, dopo l’ennesimo calcio sbagliato, il loro estremo contrattacca e buca in velocità la nostra difesa. Me lo trovo davanti lanciato. E’ un attimo, se non lo prendo addio speranze di qualificazione. Non so come (anzi, lo so) ma lo placco, e che placcaggio! Mi rialzo e frego pure la palla, ci riorganizziamo e liberiamo in rimessa laterale. Finita. Abbiamo vinto, era tutto quello che dovevamo fare, c’è soddisfazione ma non esaltazione.
Alla fine il bilancio della mia partita è così e così. Una meta fatta è stata propiziata da me, ne ho salvata un’altra, ma ho fatto un sacco di errori che hanno messo la squadra in difficoltà. Mi auto-giustifico per il nervosismo della situazione creatasi.  Non sono molto soddisfatto, ma fatta la doccia, i giornalisti, soprattutto stranieri, richiedono la mia presenza in sala stampa. Che onore.
JK mi chiama e mi accompagna, di fronte alla platea dei media è gentile e socievole, mi fa le sue congratulazioni per essermi fatto trovare pronto in una situazione un po’ strana. Torniamo in autobus all’albergo, 5 minuti di viaggio.
Mentre scendo, JK mi chiama da parte. “Oggi Matteo, mi hai deluso molto. Ho visto che ridevi, che scherzavi, che non eri pronto ad entrare in campo. Da te non me lo sarei aspettato. Tu non tieni all’Italia.  Hai tradito la nostra maglia azzurra!” Pensavo che scherzasse, infatti abbozzo un sorriso, ma lo spenge con uno sguardo severo. Capisco che è serio, ma non voglio credere alle parole che sento.
Risultato. Da quel giorno neanche una parola, semplicemente indifferenza. Il 24 ottobre, per la partita decisiva contro il Galles, sono in tribuna.
Continua…

sabato 3 dicembre 2011

FIDES

Gli allenamenti si facevano in un campo di calcio nella periferia di Livorno. Il campo comunale di rugby non riusciva a contenere tutte le squadre che la città partoriva. Il campo delle sorgenti, era un campo già molto utilizzato dal calcio e, ovviamente, quando stava a noi ad allenarci i dirigenti delle "Sorgenti SC" non erano mai troppo felici. Non che boicottassero, erano semplicemente indifferenti, in tre anni credo di non aver mai incontrato nessuno. Quando stava a noi, sparivano tutti.
Eravamo una squadra composta da quelli che nel Rugby Livorno non avevano spazio. Ma eravamo tanti. Babbo faceva l'allenatore e uno dei problemi più grandi che aveva era sempre chi far giocare.
La domenica, in trasferta insieme alla squadra, venivano tutti. Giocatori, fidanzate mogli, mamme! Ogni quindici giorni mamma si metteva in cucina a preparare lo spuntino prepartita... Ognuno aveva il suo panino: "Erbi" l'erbivoro (traduzione: vegetariano), aveva il suo panino con frittata alle verdure; "lo Zac" voleva sempre qualcosa di diverso e ordinava la sua consumazione la settimana prima; "il Duddu", "il Pompiere" mangiavano tutto. Ma quelli più belli erano "Il Gragna" e "il Mantovani". Loro, piloni, nelle partite più dure, contro le squadre con le mischie più pesanti, volevano qualcosa di più...pesante. Frittatine con cipolle, acciughe alla marinara, un po' di baccalà...dicevano che amavano vedere gli sguardi dei loro diretti avversari in mischia, dopo che gli avevano ruttato in faccia il pranzo...Che uomini!
Una volta, contro l'ASR Milano, credo, l'arbitro ordina una mischia. Loro erano molto bravi, stavano bassi e ci mettevano spesso in difficoltà. Il Mantovani, che era venuto a giocare con noi quell'anno, nel posizionarsi in mischia, comincia a parlare il spagnolo: "hola, vamos, bla bla bla...". Io lo guardo perplesso e non capisco che voglia dire. Soprattutto non capisco se stia bene o sia improvvisamente impazzito. Guardo il Gragna con sguardo interrogativo e lui: "E' scemo". Per tutta la partita andò avanti a parlare un misto di spagnolo ed a volte rumeno...
Il motivo? Testualmente: "Gli argentini ed i rumeni sono fortissimi, li ho intimoriti!" Il Gragna rispose con rutto alle cipolle che lo zittì!

venerdì 2 dicembre 2011

ITALIA-SCOZIA fine

Entriamo in campo. Di corsa. E’ bellissimo, lo stadio è pieno di gente che esulta in un atmosfera di festa. Ci saranno almeno 8000 scozzesi, venuti a Roma per dare il benvenuto alla squadra Italiana nel torneo. E’ il momento dell’inno. Mentre cantiamo mi vengono in mente le parole di sottoufficiale della marina che ci stava preparando per la cerimonia del giuramento: “state attenti ragazzi, il nostro inno tende a gasarci, dovete tenere il tempo giusto fino alla fine”. E’ vero, una parte dello stadio finisce l’inno un prima, di conseguenza si sentono due distinti  finali. Che stupido sono a pensare ad una cosa del genere prima di giocare... Comunque, che tutto lo stadio canti “Fratelli d’Italia”, è già un successo…
La partita comincia, è dura ma siamo pronti. Ribattiamo colpo su colpo, ed in più noi abbiamo Diego. Quanto è bravo! Credo sia il più piccolo di statura in campo, ma è un gigante per il contributo che dà. Non sbaglia mai ed ogni palla data a lui è messa in cassaforte. Fa sempre la cosa giusta al momento giusto, e poi placca come un dannato. Irraggiungibile.
Sul campo sono in 30 che se le danno di santa ragione. Nessuno si tira indietro, il match è equilibratissimo.
Siamo in un buon momento, ma non riusciamo a sfondare quella maledetta linea.
Raggruppamento sui 5 metri in attacco, Troncon vede arrivare “Ciccio” De Carli lanciato in velocità…e che velocità. Il passaggio va a buon fine ed il nostro ariete carica a testa bassa. Meta!
Ma ci pensate!? Dopo una vita a sognare di giocare contro i mostri sacri del rugby, un bel giorno il comitato del 5 Nazioni ci accetta, ma ci tratta ancora con tanta superiorità. Ci snobba quasi. Questa doveva essere solo una partita di esordio di una squadra, che secondo loro, non avrebbe avuto scampo. Invece no. Sembra che ci riesca piuttosto bene giocare a rugby. Abbiamo segnato, e possiamo farcela. Diego rinforza, piazzando la trasformazione, ma soprattutto poco aggiunge altri 3 punti con un drop dei suoi. Ci siamo! Che ansia, quanto manca???

L’imprevisto c’è sempre…si infortuna un ala. Entra Marco Rivaro. L’ultimo arrivato, quello che due giorni prima era a Genova a pensare a fatti suoi. Lo guardo, ha un aria strana. Gli domando come vada e mi risponde: “belin…un po’ nervosetto…”. In bocca al lupo!
Entra e dopo 2 minuti gli si presenta un’azione impossibile: difendere da solo contro due scozzesi lanciati in velocità… Terrore in panchina. Marco scatta in avanti come un razzo e tira il più forte placcaggio d’incontro che abbia mai visto fare ad anima viva! Sciok! La palla schizza in aria e lo scozzese schizza in terra, tramortito! Boato nello stadio e animi gasati a mille!
Li abbiamo in pugno. Hanno paura. L’ultimo placcaggio, oltre a fermare un azione da meta, ha esaltato noi e depresso loro.
Non c’è tempo per pensare, Troncon rimane a terra e io sono già pronto ad entrare. Gioco pochissimo e nonostante il poco tempo  non ricordo niente di cosa ho fatto. Sono entrato con un solo pensiero: placca, placca e placca. Quando ho palla la passo a Diego, ci pensa lui. E' fatta.
Il triplice fischio è meraviglioso! Che gioia, penso a tutti quelli che da rugbysti hanno sognato un momento del genere. Fantastico!
Ma quanto tempo è passato…