diario mondiali 2003

Sabato All Blacks, non vedo l'ora

Canberra, 8 ottobre 2003

Se questo fosse veramente il mio diario, allora scriverei subito una lettera e la comincerei così:
cara Elisa.
E' la mia bimba, voglio dire, la mia fidanzata.
Ma siccome questo è sì il mio diario, ma per la Gazzetta che si ricorda di noi rugbisti solo quando c'è il Sei Nazioni o la Coppa del Mondo, allora cominciò così:
ciao a tutti.
Sono a Canberra, grande come Roma, però con un decimo della gente, giri per la città e ti sembra che non ci sia anima viva.
Tanto noi siamo solo casa e chiesa, cioè albergo e allenamento.

Mancano tre giorni al pronti-via.
Che si giocasse contro gli All Blacks lo si sapeva da mesi, o forse da sempre, perché per una ragione o per l'altra siamo sempre nello stesso girone. Che ci giocassi anch'io, lo sapevo da quando un giorno, al Nevegal, dopo un paio di brutti allenamenti John Kirwan che poi è il nostro allenatore ci ha detto
-: "Forse voi non ve ne siete ancora resi conto, ma questa è la squadra che giocherà contro gli All Blacks".
Non ce ne eravamo resi conto.
Che ci giocassi anch'io, però, lo sanno tutti solo da ieri, quando Kirwan ha dettato la formazione... Mazzucato, Mazzariol, Mazzantini... sembriamo parenti.

Adesso, ogni minuto che passa, sale la tensione.
Fra un po', al nostro passaggio, le lampadine si accenderanno da sole. A proposito: in qualche albergo funziona già così, anche senza gli All Blacks.
E' un po' come il servizio militare: per un anno ti spaccano le palle, noi infatti ci siamo allenati come animali, poi aspetti solo che scocchi l'ora del congedo, che ti sembra una liberazione.
Ecco: non vedo l'ora che cominci la partita per liberarmi da questo peso.


Melbourne, gli All Blacks... e il console

Melbourne, 9 ottobre 2003

Partiti da Canberra, giacca e cravatta più una borsa, come per una normale partita di campionato.
Invece siamo arrivati non a Calvisano o a L'Aquila, ma a Melbourne, città magnifica, alta densità umana e femminile, insomma: Australia. Albergo in centro, roba di lusso.
Poi grande padiglione e presentazione ufficiale di tre squadre: Nuova Zelanda, Canada e Italia, appunto. E consegna del cappellino, che qui chiamano semplicemente "cap", anche questo ufficiale, tipo da baseball ma con un ciuffetto dorato.
Neozelandesi e canadesi mi hanno fatto impressione.
I canadesi perché sono grandi e grossi. Anche i neozelandesi sono grandi e grossi, ma in più saranno anche bravi. Li ho visti da lontano, perché se poi gli vai vicino, rischi di fare amicizia, e invece fino alla fine della partita è meglio coltivare una sana e sportiva inimicizia. Li ho visti come al solito, guardandoli dal basso verso l'alto.
Comunque qualcuno, nonostante la lontananza e il punto di vista, l'ho riconosciuto.
Jerry Collins, il numero 8, è uno di quelli che si riconoscono anche a occhi chiusi. Senti la sua presenza. Ingombrante.
Mi sono detto: "Questo qui è meglio che non lo guardi dalla cintola in su, altrimenti mi viene il mal di stomaco". Non perché sia brutto. E' che non finisce mai. Così gli guardavo solo le gambe. E le sue gambe a un certo punto finiscono. Quasi all'altezza della mia testa.
Poi Justin Marshall, il mediano di mischia, mio avversario diretto. Un monumento. Solo che è un monumento di quelli che non stanno fissi su un piedistallo, ma che si muovono a cento all'ora.
Volendo, c'era anche da mangiare e bere. Noi solo acqua e succhi di frutta. Il nostro preparatore atletico, Pascal Valentini, girava con una telecamera per documentare chi trasgrediva gli ordini. C'era anche il console.
Ho sempre pensato che i consoli fossero degli italiani ricconi che se la godono all'estero. A occhio, avevo ragione.


Giornata lunghissima e tensione alle stelle

Melbourne, 10 ottobre 2003

Volendo, ci sarebbe anche da ridere.
Ieri, per dirne una, mi sono affacciato alla finestra del nostro albergo e ho visto la piscina. Fin qui: normale. La piscina aveva l'idromassaggio. Anche qui: normale. E ai bordi della piscina con idromassaggio, un uomo e una donna. Beh: normale.
Solo che i due stavano scopando, voglio dire, facendo l'amore. E questo non è normale. Cioè: sono cose che succedono... che possono succedere... anche se a me non sono mai successe.

Giornata lunghissima, oggi.
Allenamento dalle 11 alle 12, nello stadio, il Telstra Dome, qui a Melbourne, coperto, cinquantacinquemila posti, ventidue gradi d'estate e d'inverno, e anche adesso che è primavera, anche se a dire la verità mi sembrava più freddo. Sarà per via della pelle d'oca che mi è venuta quando ero nel sottopassaggio e che non mi ha lasciato sul campo.
Erba perfetta, luci artificiali. Talmente bello che pare finto. Insomma, un bestione spaziale fantascientifico.

Un'oretta di rifinitura, a provare schemi d'attacco, touche, un po' di difesa. Poche cose, fatte bene.
Peens e Cocco Mazzariol sono rimasti a calciare e già che c'ero ci sono rimasto anch'io, perché non sei mai sicuro di aver fatto tutto quello che avresti dovuto fare, pensi di non essere ancora del tutto pronto, dici "faccio un calcio", poi non te ne vai più.
Finché ci hanno fatto sgomberare perché stavano arrivando gli All Blacks.
La tensione è a manetta. Abbiamo i peli delle braccia in continua erezione. In pancia un senso di magone. Quando a cena ci siamo seduti a tavola, nessuno aveva voglia di mangiare. Poi, come automi, abbiamo messo dentro e mandato giù. Non saprei neanche dire che cosa fosse. Mi faccio forza pensando che domani, a quest'ora, staremo tornando a Canberra, avremo giocato e dato tutto quello che abbiamo in corpo, e anche di più.
Fanculo. E saremo contenti.


Ne placcavi uno, ne arrivavano tre...

Melbourne, 11 ottobre 2003

La partita con gli All Blacks è stata la più lunga del mondo.
E' cominciata ieri sera, quando Carlo Checchinato, il capitano, ci ha fatto il suo discorso. I discorsi dei capitani servono a tirarti fuori tutto, lacrime comprese. Stavolta, invece, è stato lui a piangere, forse perché noi sapevamo già cosa dovevamo fare.
Io, questa partita, l'aspettavo da una vita. Avevo già giocato contro i tuttineri, ma era una tournée, due anni fa. Il Mondiale è tutt'un altro brivido.
Poi siamo andati a letto, io e Cocco Mazzariol: ognuno nel suo, sia chiaro. Ho raccomandato l'anima alla Madonna di Montenero e lei è riuscita a farmi dormire tranquillo. La Madonna di Montenero, per noi livornesi, è speciale: aiuta tutti, credenti, praticanti e anche quelli che, come me, la disturbano il meno possibile.
La mattina ho saltato la colazione, sperando che mi venisse fame per il pranzo, invece alle 11 avevo lo stomaco chiuso a chiave, ho mandato giù pasta scotta, pane e patate a forza di acqua. "Dovete bere tanta acqua", si raccomanda Pascal Valentini, il nostro preparatore atletico. Ma a forza di bere acqua andavo in bagno ogni 10 minuti. L'ultima sosta, la più lunga, subito prima della partita.
In campo la haka.
Ho guardato negli occhi il mio diretto avversario, Justin Marshall, e nessuno dei due ha abbassato lo sguardo. Poi via. Volevo chiedere all'arbitro di contarli: ne placcavi uno, e ce n'erano altri tre che ti venivano addosso. Essendo loro in 45, è finita 70-7. Solo così si spiega come mai noi, che pure abbiamo sputato sangue, dato l'anima e spremuto ogni energia, alla fine siamo quasi soddisfatti della nostra prestazione.
A me, un po', mi rode dentro, perché ci siamo fatti un culo enorme e quelli, ogni minimo errore, te lo puniscono senza pietà. Sono uscito a metà del secondo tempo: un po' lo sapevo, un po' lo temevo, un po' ci sono rimasto male, perché avevamo fatto un patto - "non mollare mai" - e volevo tenere duro fino alla fine.
Kirwan ci ha detto tre cose: la prima è "avete mostrato un bello spirito", la seconda "loro sono più forti", la terza "adesso si comincia davvero".
Adesso, però, ho la maglia di Marshall, un po' di magone perché speravo in qualcosa di meglio, poi dolori a polpaccio, mano, costola e soprattutto collo, anche se c'è chi sta peggio di me, come Carlo Festuccia, che ha la saracinesca abbassata sull'occhio destro.
E forse la partita con gli All Blacks non è ancora finita se, come credo, stanotte me li sognerò



Una notte nera, anzi All Black

Canberra, 12 ottobre 2003

Ieri, appena arrivati a Canberra, la prima cosa che abbiamo fatto è stato un bagno in piscina. Sai che voglia.
Ci raccomandano: nuota che ti passa. Invece non è passata per niente.
Perché stamattina, dopo una notte tutto sommato tranquilla (tranquilla per quanto possa essere una notte popolata da All Blacks, vestiti da All Blacks, con la faccia da All Blacks e che ti montano addosso come se fossero degli All Blacks), dicevo dopo una notte tutto sommato tranquilla, appena aperti gli occhi, ho fatto il conto delle botte.
Mi faceva male qui, là, anche su e giù, un po' sopra e perfino sotto. Ma più di tutto mi faceva male il polpaccio.
In questi, e purtroppo anche in altri casi, ci consigliano: fa' la "vasca fredda". Non c'è niente di più triste al mondo. Ti portano in camera una vagonata di ghiaccio, la depositi nella vasca da bagno, ci aggiungi qualche litro di acqua fredda (in Australia si dice: "cold"; è sempre quella che viene giù dal rubinetto colore blu), poi ci tuffi dentro le gambe. Se ci tuffi dentro anche il resto del corpo, il bagno si allaga e tu rischi di crepare. Quindici minuti con le gambe a mollo, a volte cerchi il conforto del compagno di stanza, con me adesso c'è Andrea Lo Cicero, ma lui non sente dolore, potrebbe passare lì, a cavalcioni, anche un weekend.
Così, per non peggiorare la situazione, ho saltato l'allenamento e mi sono dedicato ai massaggi.
Abbiamo due fisioterapisti, Claudio Fossati e Ennio Zaffalon, che da anni ci seguono come se gli dovessimo dei soldi, più cinque massaggiatori convocati dall'International Board, cioè dalla federazione internazionale, a nostra disposizione. Questi cinque li affitti a mezz'ora, come se fossero dei campi da tennis.
Finita la mia mezz'ora, siccome non si è presentato nessun altro, ho continuato a farmi massaggiare schiena e gambe per un'altra mezz'ora. Un vero godere.
Il clima, in squadra, è così così. Un po' per via del 70-7, che sono proprio tanti punti, i loro, e certo noi potevamo fare di meglio. Un po' per via che chi ha giocato contro gli All Blacks è scarico e vuoto, e chi deve giocare contro Tonga non sta più nella pelle.
Nel frattempo gli stomaci si sono riaperti ed è tornata la fame.
Una fame grande, arretrata, bestiale. Quanto a Festuccia, si è svegliato con la saracinesca abbassata sull'occhio destro e solo nel pomeriggio ha cominciato a tirarla su.
Già non era bello prima, ma adesso è davvero impresentabile.



Buona notizia: con Tonga sto in panchina

Canberra, 13 ottobre 2003

Sveglia libera e colazione, se chiudi gli occhi ti sembra di essere in vacanza.
Poi li riapri e vedi Lo Cicero, e allora capisci che in vacanza non sei.
Perche', a parte la sua fidanzata, chi andrebbe mai in vacanza con Lo Cicero? Dai, sto scherzando.

L'unico impegno della mattinata era riservato a un colloquio con John Kirwan, che i neozelandesi, per fare in fretta, chiamano JK.
Non so se ci sono anche i puntini: J.K. Comunque si pronuncia Geichei. Colloquio personale.
Franchino Properzi, che e' il massimo della scienza applicata al rugby in Italia, liofilizza la tua partita, scarica il video nel computer e poi ti viviseziona cosi. Vuoi sapere quanti placcaggi hai fatto? C'e' una voce che si chiama, appunto, placcaggi. E che ti dice: 14. Clicchi sopra e vengono fuori tutti e 14 i placcaggi, minuto per minuto. Se vuoi rivedere quello eseguito al 21' del primo tempo, clicchi sopra e vedi l'azione.
Tutto questo per capire se le sensazioni che hai avuto, finita la partita, erano giuste o no. E le mie sensazioni erano azzeccate: come mi ha suggerito John, ho qualche magagna e devo ancora lavorare per migliorare.
Il vero guaio e' che non sono telegenico, e su questo c'e' poco da lavorare e niente da migliorare. Se fossi alto, biondo e perdipiu' neozelandese come Kirwan, perfino il computer mi avrebbe promosso a pieni voti.
Adesso due belle notizie.
La prima: il mio polpaccio e' a posto, stamattina gli ho chiesto "come va?", lui mi ha risposto "bene, grazie", l'ultimo massaggio e' stato decisivo.
La seconda buona notizia: contro Tonga vado in panchina.
Per cena sono uscito con il clan degli aquilani: Masi, Perugini e Festuccia, che volevamo festeggiare perche' il suo occhio si e' sgonfiato ed e' tornato umano, sia l'occhio sia Festuccia.
Conviene a tutti uscire con Festuccia, perche' nel confronto si fa sempre una bella figura.
Siamo andati a mangiare da Antigo. Sono sei fratelli calabresi, sparsi per il mondo e' uno in Australia, un altro negli Stati Uniti, in Peru', in Germania e poi non mi ricordo piu', forse per non farsi concorrenza, e ciascuno di loro ha aperto un ristorante italiano. Qui e' pieno di italiani.
Un siciliano ci ha detto: "Minchia, avevo scommesso su di voi contro gli All Blacks e ho perso".
Ci aveva dati vincenti. Non solo. Di 51 punti.



Belìn, c'è un uomo che sta bruciando

Canberra, 14 ottobre 2003

In macchina: Giacomo Mazzocchi, capo dell'ufficio stampa, e Marco Bollesan, general manager.
Mazzocchi al volante, Bollesan di fianco.
Poi Mazzocchi svolta, è soprappensiero, dimentica che qui la guida è a sinistra, e imbocca la strada come al solito, sulla destra. Dall'altra parte arriva una jeep.
Risultato: un bel frontale e macchina distrutta e fumante, quella di Mazzocchi e Bollesan. Per fortuna scattano gli air bag.
Per sfortuna, quello di Bollesan s'incendia. Bollesan fa per uscire, ma la porta è bloccata, allora si ricorda di essere stato un terza centro, dà una gomitata, sfonda il vetro ed evade dal finestrino.
Fa cinque passi per mettersi in salvo, poi si dice: "Belìn, ma qui c'è un uomo che sta bruciando". Mazzocchi.
Torna sui suoi passi e come Rambo, o Superman, lo salva dalle fiamme.
Incredibile quello che s'inventano i nostri dirigenti per non farci mai annoiare, anche se il giorno prima della partita cerchi di stare il più possibile tranquillo.
Sveglia alle 9 e mezzo, colazione, allenamento a mezzogiorno, titolari contro riserve, le riserve fanno opposizione.
Ci siamo allenati nello stadio dove giocheremo domani: a Canberra, immerso in un bosco dove le riunioni di condominio sono fatte tra koala, stavolta il campo ha come tetto un cielo di nuvole o di stelle, assomiglia al Flaminio, forse un po' più basso, ma con gli stessi spettatori. Come numero, non come facce.
E qui torneremo stasera, per controllare le condizioni di umidità e scegliere i tacchetti.
Dei tongani so poco o niente.
Conosco di vista tal Willie, che gioca a Parma come trequarti ala, invece in Nazionale come seconda o terza linea.
E' gente che spinge, che in touche gioca stretto, che attacca di fisico, con l'estremo e le ali che tagliano, e nessuno di loro si tira indietro. Anzi: tirano avanti. E se c'è da menare, menano.
Le isole Tonga saranno centocinquanta, piatte, incontaminate, spettacolari.
Dovevamo andarci due anni fa, in tournèe, invece niente perché non si trovava un albergo. Magari lì è tutto così bello che gli alberghi non esistono e si dorme su una sdraio o su un'amaca.
A Treviso giocava Edwards Lavulo, uno dei cinquanta figli del re di Tonga. Numero otto. Simpatico. Adesso è a Canberra, ci ha detto che verrà a vedere la partita, e si è scusato se stavolta non farà il tifo per noi.
Però la prossima volta sì, ha aggiunto. Gli altri giocatori hanno nomi impossibili.
A parte un certo Ma'asi, che dev'essere mezzo aquilano e neanche tanto lontano parente del nostro Masi.
Strano ma vero, il tongano è una lingua, in un certo senso, simile a quelle latine. Innanzitutto per via dell'alfabeto, con le consonanti e le vocali, che si leggono come si scrivono.
Tant'è vero che tongani e figiani, appena arrivano in Italia, cominciano a parlare l'italiano.
Che poi, se ci pensi, è normale. Pensa se invece cominciassero a parlare tedesco o francese.
A giudicare dalle facce dei giocatori, gli uomini non sono molto attraenti. Quanto alle donne, non saprei dire.
Ma brutte come le figiane, è dura.


Tonga k.o. grazie alla colonna sonora

Canberra, 15 ottobre 2003

Vista dal mio punto di vista, cioè dalla panchina, la partita sarebbe stata più bella se l'avessi vista da un altro punto di vista, cioè dal campo oppure, come colpo d'occhio, dalla tribuna.
Ma è stata una gran partita, a cominciare dal prepartita. Dove eravamo tranquilli, ma così tranquilli, fin troppo tranquilli, da lasciarmi poco tranquillo. Invece non era tranquillità: era consapevolezza.
Inni, poi chi in campo, chi in panchina.
Io ero nervoso: ho cominciato a mangiarmi le unghie, presto sono passato alle dita, infine stavo dedicandomi alle mani. Dall'amputazione - un guaio per chi fa il mediano di mischia - mi ha salvato l'intervallo. Risultato: 9-7.
Rientrati nello spogliatoio, ci siamo seduti, bicchierino di acqua e sali, poi Kirwan ha parlato con i trequarti e Carlo Orlandi con gli avanti, infine Kirwan ha parlato a tutti: "I loro punti sono solo colpa nostra. Perché abbiamo vinto le mischie e le touche, e ogni volta che attaccavamo, abbiamo fatto punti". Vero: prima buttavamo gli avversari fuori dalla partita, poi con i nostri errori spalancavamo la porta e li facevamo rientrare, "prego", "grazie", "prima lei".
Comunque, detto e fatto: 36-12, e peccato non aver segnato una quarta meta, che voleva dire un punto in più in classifica.
Il segreto della vittoria sta forse nella colonna sonora. Quando siamo arrivati allo stadio, gli organizzatori trasmettevano "La donna è mobile, qual piuma al vento...", alla fine abbiamo messo su "Vincerò".
Adesso vietato esagerare. Siamo al terzo tempo, banchetto con i giocatori di Tonga, simpatici ma tristi, a sapere che ci sarebbero rimasti male non li avremmo trattati così. Intanto, per la cronaca, bisogna spiegare cos'è successo ai capelli di Gonzalo Canale e Sergio Parisse.
Nel giorno libero hanno incontrato due ragazze, le due ragazze hanno proposto un "facciamo una follia", loro hanno accettato al volo immaginando chissà che, ed ecco il risultato:
adesso la testa di Gonzalo sembra il battistrada di una gomma Michelin, quella di Sergio una siepe rasata di fresco.
Infine, per la storia, Parisse è stato votato il giocatore più bello della Coppa del mondo.
Ma ce l'ha fatta solo perché Festuccia è fuori concorso.


Festa al pub, sorrisi e aliti freschi

Canberra, 16 ottobre 2003

Il 36-12 contro Tonga l'abbiamo festeggiato ieri sera nel pub di un italiano, invitati da lui.
In altri tempi avremmo potuto mandarlo sul lastrico, prosciugandogli l'intera collezione di birre alla spina: titolari, riserve e anche quelli in tribuna. Invece non abbiamo fatto niente di eccezionale. La birra sì, era eccezionale: quella australiana si chiama Four X, è scritto XXXX, noi le chiamiamo bionda e chiara, come se fosse una bella ragazza, invece loro la chiamano lager, che da noi suona proprio male.
Poi a letto presto, occhi chiusi, proiezione personale del film della partita, ciascuno dal suo punto di vista, il mio sapete già qual era.
Stamattina, più che Casa Italia, sembrava il Club Med.
Sveglia con comodo, colazione pronta, piscina, certi sorrisi che sembravano la pubblicità dei dentifrici, aliti freschi al pino silvestre. Mai visto uno spirito così in Nazionale. Forse solo contro la Scozia, prima partita del Sei Nazioni, nel 2000.
Entrai gli ultimi 10 minuti: fu il mio esordio in azzurro. C'era quello spirito lì, e quei sorrisi lì, non per la mia prima partita, ma per la nostra prima vittoria.
Poi, per chi ha giocato contro Tonga, c'è stato il solito triste quarto d'ora di immersione nella calotta polare; per gli altri sauna e idromassaggio; per tutti, un cielo da cartolina. E a pranzo, per allenare anche il fegato, hot dog, ketchup e mostarda.
Il pomeriggio alle 4 allenamento: per chi ha giocato contro Tonga, cyclette; per gli altri, un culo emorme simulando una partita, magari senza scontrarsi con dei tram chiamati Checchinato o Phillips.
Denis Dallan ha spiegato a quelli di Sport Sky come ha fatto a rubare il pallone nella maul e volare in meta.
Facile: entri, aiuti, spingi, l'importante è che il possessore del pallone rimanga in piedi, poi nella confusione chi ha il pallone gioca d'astuzia.
La verità è un'altra: il pallone vero ce l'aveva Lo Cicero, l'ha nascosto sotto la maglia, tanto non si notava la differenza, poi è vero che nella confusione chi ha il pallone - un secondo pallone - gioca d'astuzia, e quello lì era Denis.
Quanto a Lo Cicero, è un falso grasso. Sembra ciccione, ma è tutto muscoli.
Così come Denis è un falso pelato e Festuccia un falso brutto.
Stamattina a Lo Cicero è arrivato un messaggio sul telefonino. Diceva: "Ti rendi conto che hai ucciso un uomo?". E lui, ridendo soddisfatto, ammetteva: "Sono proprio forte".



Per vincere ci vuole l'omino

Canberra, 17 ottobre 2003

Colazione, chiacchiere, video della partita contro Tonga, riunione, pranzo, allenamento,
visita a casa dell'ambasciatore con ricevimento, quello che si chiama buffet ma che per noi significa vietato abbuffarsi.
C'è un salone, nell'albergo, che abbiamo trasformato in un circolo Arci: freccette, ping pong, lettura collettiva di una copia del Corriere della sera, abbiamo comprato anche uno stereo, ci manca solo che balliamo fra di noi, Lo Cicero con Castrogiovanni, Festuccia con Masi... Lasciamo perdere.
Ho cominciato a giocare a rugby perché il mio babbo, Franco, giocava. Pilone e terza linea. Come pilone, poteva essere considerato moderno: leggero e mobile. Solo che allora soffriva e basta. Carpentiere, operaio.
E' rimasto nel rugby, come allenatore. E allena ancora, adesso che è in pensione, le giovanili, a Pisa. Lui ha un modo tutto suo per spiegare il rugby. La mischia, per esempio. Dice: "Non bisogna mai spingere da soli, ma uniti. Prendi la mano. Se dai una ditata alla volta, fai niente. Se stringi le dita, insieme, e dai un colpo solo, si chiama pugno, e senti che bella differenza".
Babbo era il tipo che, quando tornava a casa, parlava di rugby con la mamma, anche se la mamma non ne sapeva granché.
Descriveva i giocatori, approfondiva gli aspetti tecnici e anche tattici, poi magari concludeva: "E' bravo, è bravo, ma gli manca l'omino". Non riuscivamo a capire chi fosse, quell'omino. Finché spiegò: "Quelli forti, anche se tecnicamente non all'altezza, hanno l'omino dentro che li spinge a lottare e a dare di più".
Quando ero piccolo, più piccolo degli altri, e in campo tutti mi picchiavano, lui mi rassicurava: "Non ti preoccupare". E mi picchiavano.
E lui: "Non ti preoccupare". E mi picchiavano.
Sul terrazzo avevamo un ombrellone, d'inverno si toglieva la parte alta, rimaneva il gambo di legno.
Lui mi diceva: "Va e innaffia il bastone". Non capivo, certe volte ho anche pensato che fosse impazzito.
Finché capii: innaffiare il bastone significava "continua ad allenarti".
Prima della partita contro gli All Blacks, babbo mi ha telefonato. "Sono un po' nervoso", gli ho confidato. E lui: "A questo punto sei ai Mondiali. Come posso aiutarti?".
Eppure quelle poche parole un po' mi hanno aiutato.

Il mediano di mischia, anzi di musica

Canberra, sabato 18 ottobre 2003

Mattina a base di velocità, tecnica personale e palestra. Pomeriggio titolari in difesa e riserve in attacco.
Siccome Troncon ha preferito saltare questo allenamento, sono stato promosso fra i titolari. Peccato: avrei voluto giocare e inventare, invece mi è toccato montare e placcare.
Se il mediano di apertura sceglie la tattica e comanda il gioco, il mediano di mischia detta il ritmo.
E' come se il primo scrivesse le note sul pentagramma (non è mica colpa mia, non la sto mettendo giù dura: si chiama così), e l'altro dirigesse l'orchestra.
Ora, c'è modo e modo: una certa armonia la puoi eseguire a 33 giri o a 78, beccheggiante come un valzer o strappacuore come un blues o nervosa come un rap.
E' lì che entro in scena io, e quelli come me. Numeri 9, con i primi otto alle proprie dipendenze, un senso di euforia ingiustificato dalle proprie dimensioni.
Il rugby è, in un certo senso, musica.
C'è chi ascolta musica fino a un attimo prima di entrare negli spogliatoi, chi addirittura fino al momento di entrare in campo. Ma l'importante è sentire la musica in campo. Senza cuffiette.
E' musica che ti passa per le mani, come capita a un pianista, o a un batterista, o anche a un contrabbassista. Se penso a quanto si improvvisa, direi che è jazz. Ma a me piace il rock. Quando voglio dare un ritmo frenetico, penso al rock metallico, agli AC/DC. Se è meglio andarci più cauti, penso al pop. Comunque, in Italia-Canada, la musica sarà quella del maestro Troncon, io rimarrò dietro le quinte, cioè in panchina.
Stasera abbiamo mangiato con i giornalisti italiani.
Si sono seduti con Troncon, Stoica, Mazzariol e gli altri giocatori-opinionisti. Invece nessuno ha diviso spaghetti e minerale con me, gli aquilani e qualcun altro che non conta.
Strana gente, i giornalisti. Si controllano a vicenda: se uno si alza, gli altri gli vanno dietro, forse per paura di perdere una notizia o, come dicono loro, prendere un buco.
Alcuni sono convinti di sapere tutto, poi scopri che non hanno mai preso un pallone in mano.
Comunque giocare a rugby e fare il giornalista hanno una cosa in comune: che è sempre meglio che lavorare.



Il Barone, perfetto compagno di stanza

Canberra, domenica 19 ottobre 2003

Piove. Dopo la colazione, ci siamo rifugiati nel nostro circolo Arci, quello allestito al primo piano.
Abbiamo trovato, diviso e divorato un "Corriere dello Sport", quello uscito il giorno dopo la partita contro gli All Blacks. Come sarà arrivato, su una barca a remi?
Nell'era della comunicazione in tempo reale, globale e tutto quello che finisce in ale, anche banale, il massimo che ci possiamo godere è il quotidiano di una settimana fa.
Poi pranzo e pomeriggio libero.
Io sono andato a comperare qualche cd, con il Barone, al secolo Andrea Lo Cicero.
AC/DC, Ben Harper, la colonna sonora di un film, più un paio di regali che non posso svelare. I cd costano dai 10 dollari in su, ma siccome il dollaro australiano vale sì e no mezzo euro, il prezzo è conveniente.
Il Barone è il mio compagno di stanza e anche di vasca, quella dove ci tuffiamo insieme al ghiaccio.
Bel tipo, il Barone. Eccezionale nelle pubbliche relazioni. Gli piace parlare, chiacchierare, farsi fotografare. Sulla strada, basta che lo fermino, e lui è felice. Anche se si tratta di un vigile, che vuole fargli una multa.
Quando gli chiedono un autografo, lui firma: "Lo Cicero Vaina Andrea n.1". Prima il cognome, anzi, i cognomi, come fanno i carabinieri sui loro verbali. E il n.1 è sì il suo numero di maglia, da pilone, ma anche l'obiettivo, un po' ambizioso, che lui si pone: diventare il numero 1, appunto, il migliore.
L'unico inconveniente è che per fare l'autografo ci mette un quarto d'ora.
Di notte il Barone è un perfetto inquilino: prima di coricarsi si lava i denti e le ascelle, fa perfino il bidet, e non russa.
Il peggiore è Gert Peens: siccome dorme poco, o si sveglia continuamente, allora accende la tv, spara il volume alto, e se gli dici "dai, abbassa un po'", ti guarda fisso negli occhi fino a farti passare qualsiasi accenno di stanchezza e a farti venire un po' di apprensione.
Poi c'è Marco Bortolami che parla nel sonno, Denis Dallan che digrigna i denti... insomma, un bel circo.
E' ufficiale: Canberra è stata invasa dai gallesi.
Pelle sole-repellente, pance a damigiana ma di birra, cori in una lingua medievale incomprensibile, maglie rosse che sembrano i garibaldini.
Per noi la parola d'ordine è: battere il Canada. Alessandro Troncon sta bene: sono contento per lui, un po' meno per me.
Giocare seduti non è la mia specialità.


Italia-Canada o Canada-Italia o quel che è

Canberra, lunedì 20 ottobre 2003

Vigilia di Italia-Canada.
Tutti tranquilli, noi, come per risparmiare le energie, come per accumularle una sull'altra fino a traboccare, fino a esplodere, fino a fargliela pagare costi quel che costi.
Vigilia di Italia-Canada, o Canada-Italia, non so.
Stasera abbiamo fatto allenamento, un allenamentaccio, cominciato male, con quel nervosismo che ti prende dopo qualche giorno di cazzeggio e quando ti rendi conto che tutto, insieme, sta per piombarti addosso anche se lo sai già.
I primi 20 minuti di allenamento erano a ingresso libero, così siamo stati invasi dai giornalisti: australiani, gallesi, italiani... Anche le tv. In tutto una cinquantina.
Un assedio.
Noi giravamo e loro assalivano Kirwan e Grant Doorey, che nella vita sarebbe l'assistente alla difesa, intesa come tattica di squadra, ma qui sembrava quasi l'assistente alla difesa personale di Kirwan.
Per fortuna, dopo 20 minuti, tutti fuori dalle balle.
Vigilia di Italia-Canada, o Canada-Italia, o quel che è.
Nello spogliatoio Carlo Checchinato, dall'alto dei suoi 13 anni di Nazionale, e anche dall'alto del suo metro e 97, ci ha più o meno fatto capire che "siamo arrivati a un punto in cui si fa la storia".
Nel senso che "frega niente di quello che è successo né di quello che succederà, ci frega solo del Canada, battere il Canada ed entrare nella storia" .
Perché "primo: mai si sono vinte due partite in un'edizione", e "due: se si batte il Canada, poi c'è il Galles, e se si batte il Galles, si va nei quarti, e questa è storia". E ha aggiunto che "non sarà storia che si studierà sui libri di storia a scuola, ma nei club, nei pub, nei terzi tempi, anche nel più povero spogliatoio del più sgangherato campo dell'Itaia ovale si parlerà per sempre di noi". Cazzo.
Adesso siamo lì sul filo dell'alta tensione e cerchiamo di non prendere la scossa .
Tecnicamente si dice: rilassarci.
Properzi ha scaricato da Internet dei filmati sulle avventure di cinque ragazzi che, con lo skateboard o con la bici, ne fanno di tutti i colori.
Sono dei veri deficienti.
Mi fanno ridere come un matto.
Forse sono poco zen, ma questa è la mia tecnica di rilassamento preferita.


Vittoria storica: abbiamo giocato con l'omino

Canberra, martedì 21 ottobre 2003

Allora: Italia-Canada.
Cinque minuti prima di entrare in campo, Troncon va dal medico: "Fammi una puntura".
Un mal di schiena di quelli che costringerebbe una persona normale a 15 giorni di malattia.
Kirwan mi dice: "Tienti pronto".
Faccio riscaldamento con la squadra, poi riappare Troncon, allora mi rivesto e vado in panchina.
Agitatissimo.
Tanto che alla fine del primo tempo (9-6 per noi) ho consumato così tante energie nervose che ho una gran fame , e mangio due banane.
Intanto Troncon non ce la fa: mi scaldo di nuovo, e le due banane, con il freddo che fa fuori, mi si bloccano lì in pancia, e fatico a digerirle.
I primi 20 minuti bene, anche perché 10 li giochiamo in superiorità numerica.
Andiamo in meta, e un po' di merito è anche mio.
Esce il pallone dalla loro parte, io ci metto un piede, lo sporco, non il piede, ma il pallone.
Lo confesso: fare casino è la cosa che mi riesce meglio.
In quell'azione recuperiamo il pallone, e alla fine Parisse sfonda e schiaccia.
Poi si diffonde un panico collettivo, contagioso, prende De Rossi, poi Canale, poi anche me.
Nel mio bilancio devo mettere due calci di merda, un calcio scivolato e due brutti passaggi a Wakarua.
E' che il terreno era duro, e non si potevano usare i tacchetti lunghi, però poco prima dell'inizio della partita c'era stato uno scroscio di pioggia, ed ecco perché il pallone sembrava una saponetta. Ma non lo era.
Il pallone scivolava perché eravamo nervosi.
Finisce 19-14 per noi, e fanculo a tutto. Una soddisfazione enorme.
Mai si erano vinte due partite in un Mondiale, e sabato con il Galles sarà una di quelle partite che qui chiamano "do or die". La partita della vita.
Adesso contiamo i feriti: Mirco Bergamasco è all'ospedale con uno zigomo scheggiato, Troncon ha la schiena k.o, Bortolami una sublussazione alla spalla, Masi una botta alla cresta iliaca dolorosissima.
Chi faceva più impressione era Aaron Persico: deve aver dato una nasata a un bisonte canadese, così che a un certo punto lo guardo e gli vedo su un cerottino, l'azione dopo ha su un cerotto, un'altra azione e ha su un cerottone, sta fuori 5 minuti e quando torna ha una banda che parte dal naso e arriva alla nuca, alla fine torna a un cerottone sotto il quale, forse, c'era il resto del suo naso.
Alla fine sono stato sorteggiato (no, non è vero: mi hanno richiesto!) per la conferenza stampa.
Poi le domande le hanno fatte tutte a Checchinato e Parisse, e a me solo una: "Come hai fatto a placcare l'estremo?".
E come voleva che facessi: "Ho corso e l'ho preso".
Spero di essere stato di aiuto al giornalista.
E vabbe'. In un'altra occasione avremmo perso, invece stavolta abbiamo un sorriso da pubblicità di biancheria intima (lo so, non ve ne siete mai accorti, ma quelle signorine hanno denti bianchissimi).
La verità è che abbiamo fatto tanti errori, ma abbiamo giocato con l'omino


La forza del Galles? La birra

Canberra, mercoledì 22 ottobre 2003

Ieri sera eravamo elettrici come i pali dell'alta tensione.
Poi siamo andati in piscina e l'adrenalina si è trasformata in camomilla.
Per fortuna il cuscino non sgusciava via come il pallone e ci ho dormito su.
Stamattina abbiamo contato i feriti: Bortolami è fuori, con la spalla sublussata, ed è un peccato, perché in touche pareva una garanzia;
Mirco Bergamasco probabilmente è fuori anche lui, con uno zigomo incrinato, e non ha più la faccia da angioletto; a Persico ("Ciao amico", lui dice sempre, "ciao amico") hanno messo insieme un mucchietto di ossicini e le due narici e adesso ha di nuovo il naso al suo posto; Troncon sta bene, vuole sempre giocare lui e se non gioca si arrabbia; Masi sta benino, a occhio sembra a posto, ma sotto la tuta è fasciato come una geisha.
Allenamento tranquillo, poi piscina, poi un'invenzione ancora più triste del bagno freddo: 5 minuti di acqua calda ma calda veramente, poi 40 secondi di acqua gelida ma gelida veramente e dentro fino al collo.
Valentini giura che questa alternanza di caldo ma veramente caldo e di gelido ma veramente gelido riattiva e stimola la circolazione. La circolazione dovrebbe servire a riassorbire le botte e l'acido lattico, ma vi assicuro che serve a riassorbire anche il sesso , nel senso che lo cerchi e per trovarlo ci vuole un archeologo.
Oggi niente confessioni da Kirwan, c'è poco tempo prima del Galles, è scattato il condono.
La riunione era già impostata sulla partita di sabato contro il Galles, i loro punti deboli, i loro punti forti, a cominciare dalle birre.
Dài, scherzo. Anche perché, a questo punto, c'è poco da scherzare.
Siamo tutti contenti per la vittoria, ma siamo dispiaciuti per aver giocato così così, e siamo coscienti che contro il Galles sarà una battaglia.
Così il compleanno di Castrogiovanni è stato indimenticabile: infatti l'abbiamo festeggiato con una fettina, ma proprio ina, di torta, e acqua minerale.
Nei monasteri, almeno, ci sono gli amari, se non addirittura gli elisir del frate.
Stasera appuntamento qui nel circolo Arci, al primo piano dell'albergo.
Un dvd, in compagnia.


Quando anche il riposo è un allenamento

Canberra, giovedì 23 ottobre 2003

Giornata di allenamento a base di riposo, perché anche il riposo è un allenamento, un recupero, un restauro, una riabilitazione.
Si mangia, quel che si può, si beve, quel che si deve, si guarda, quel che si trova, si legge, quel che si è portati da casa, si fa un salto al circolo Arci, una partita a ping pong, ma senza sentimento.
E' uno strano momento, quello dell'attesa. E' un andare in giro a cercare qualcuno, senza trovarlo, perché in fondo chi devi trovare è a portata di mano, e anche di gamba: sei tu.
Cioè, nel mio caso: sono io.
Siamo tutti in cerca di noi stessi, anche se facciamo finta di cercare Festuccia o Castrogiovanni, Persico ("Ciao amico") o Masi.
Perfino Lo Cicero, perfino lui, ha qualche difficoltà nel tenere le pubbliche relazioni.
Siamo in cerca di tranquillità, e allo stesso tempo di rabbia.
Siamo in cerca di concentrazione, ma anche di istinto selvaggio, guerriero, animale.
Siamo in cerca di qualcosa che possa riempire il vuoto che sentiamo dentro.
Siamo in cerca di conferme, ma sopraffatti da domande e interrogativi.
Stiamo ripassando una partita ancora tutta da giocare.
Galles, dunque.
Battuto a Roma, la prima del Sei Nazioni 2003.
Gente dura, orgogliosa, forte. Questa è retorica.
I loro primi 20 minuti fanno paura: è come essere stipati in una lavatrice, e poi inseriti in un lavaggio che comincia direttamente dalla centrifuga.
Se ne esci sano e salvo, allora comincia la vera partita. Perché loro non sono irresistibili dietro, in difesa, e poi scopri anche che tutto quello che appare non è coraggio.
Troncon sta bene, io andrò in panchina.
Certe volte la panchina scotta, sembra una griglia, e io uno spiedino.
Certe volte la panchina non è nemmeno una panchina, ma una sedia.
Preferisco la panchina alla sedia: è come stare tutti sulla stessa barca.
Si va a dormire presto.
Non sento la mancanza dello psicologo, ma della mia fidanzata.
Adesso spengo la luce, Spenta. 'Notte.



E' tribuna, ma sono testardo, ricomincerò

Canberra, venerdì 24 ottobre 2003

Quella che "il buon giorno si vede dal mattino" è una gran balla.
Mi svegliano alle 9, toc-toc alla porta, chi è, c'è qualcosa per lei, per lei cioè per me, qui, strano, apro ed è un mazzo di nove rose rosse, nove come il numero del mediano di mischia.
E' il mio compleanno, e quello è il regalo della mia fidanzata Elisa, e viene dall'Italia.
Anche se le rose, a occhio e a naso, hanno l'aria di essere australiane.
Bello pimpante, faccio colazione e vado alla riunione, quando incrocio Kirwan.
Che mi fa: "Ti devo parlare".
Non ce ne sarebbe stato bisogno: avevo già capito tutto.
Invece lo lascio parlare, anche per cercare di assorbire meglio il colpo.
E di quelle parole, ascoltate come se fossi in coma vigile, ricordo qualcosa tipo "non è una bocciatura", "è solo una scelta", "in base alla squadra che affrontiamo".
Ci sono rimasto da cani, mi sono sentito malissimo, e sono ancora a terra.
Però sono più testardo io di loro, ho ricominciato tante volte, ho già ricominciato adesso.
Brad Johnstone, che ci allenava prima di Kirwan, continuava a dirmi "sei fortissimo", poi un giorno si dimenticò di me, forse aveva perso il mio numero di telefono o l'indirizzo.
E con Kirwan era già successo di essere lasciato a casa.
Ho cercato di sfogarmi come potevo: un bell'allenamento atletico, dandoci dentro, fino all'ultima energia, poi mi sono regalato un cd.
Mi hanno fatto piacere tutti i compagni che mi hanno detto un "dai", "su" o "fanculo", e quelli che mi hanno dato una pacca sulle spalle, anche se una pacca data da Castrogiovanni o Perugini rischia di procurarti come minimo una sublussazione.
Per l'occasione Persico ha rinunciato al classico "ciao amico" per dedicarmi un "mi dispiace".
Il barone Lo Cicero mi ha ordinato "non mollare": siccome è il mio compagno di stanza, forse non si riferiva solo all'aspetto morale.
Ma sì, mi dispiace, da matti, però mi dico che non è la fine del mondo, anche se non so esattamente come prenderla.
Invece sono contento per Mauro Bergamasco, che va in panchina e poi forse sarà in campo.
C'è un bel cielo, il sole splende, e fa pure caldo.
Domani allora andrò allo stadio con gli altri esclusi più Zullo, Zaffiri e Moretti, che stanno in un appartamento a Sydney trovato da Mark Giacheri, ma che per le partite vengono qui.
Tribuna. E' un punto di vista.



E ora rifacciamoci delle birre perdute

Canberra, sabato 25 ottobre 2003

Giacca e cravatta, sembravo vestito come alla prima comunione.
Anche se la prima comunione non l'ho mai fatta, quindi neanche la seconda e la terza.
A Livorno, fra socialisti e anarchici, si è tutti atei, L'unica religione di casa mia è sempre stato il rugby.
Perciò: maglia a strisce o a tinta unita e braghe corte.
Invece: giacca e cravatta, e tribuna. Centrale. Non lontano dal box dove sedeva Kirwan.
Partite di rugby viste, perdipiù in tribuna, pochissime nella mia vita: quasi tutte giocate, molte vissute anche dalla panchina, con quel nervosismo di chi sa di poter entrare da un momento all'altro.
Ma dalla tribuna è peggio: stesso nervosismo, e inoltre la rabbia di chi sa di non poter entrare.
E' andata così: che al primo errore siamo stati puniti, e al secondo errore non siamo stati risparmiati, eppure a metà del secondo tempo eravamo ancora in partita, 20-15 per loro, e fin lì ci credevamo.
Poi la mischia, che fino a quel momento era stata il nostro punto di forza, ha cominciato a cedere, e allora è stata la fine.
Eppure abbiamo cercato la meta fino all'ultimo istante, e una meta proprio ce la meritavamo.
Insomma, ci abbiamo provato, da subito, ci abbiamo dato dentro, fino alla fine, ce l'abbiamo messa tutta, e così, comunque vada, quando finisce ti senti appagato.
Ma ti senti anche stanco morto, distrutto, e triste.
Lo spogliatoio sembrava il muro del pianto.
Kirwan ha detto che abbiamo giocato con orgoglio.
Io ho fatto i complimenti a tutti, perché si sono battuti alla grande.
Parole che fanno bene, ma che senti a fatica: sei chiuso in te stesso, sai di aver dato l'anima, ma di essere fuori dal torneo.
Persico mi ha comunque risposto: "Ciao amico".
Stasera facciamo il giro dei locali, una birra in ogni locale, per rifarci della birra perduta.
Abbiamo ancora in mente il Galles, soprattutto la partita che giocheremo nel Sei Nazioni del 2004.
In Galles, a Cardiff, nel Millennium.
Ottantamila con la maglia rossa. Sarà ancora più bello vincere a casa loro.